Di tutte le felicità che lentamente mi abbandonano, il sonno è una delle più preziose e anche una delle più comuni. Un uomo che dorme poco e male, appoggiato su una pila di cuscini, ha tempo per meditare su questa particolare voluttà. Concedo che il sonno più perfetto resta quasi per necessità un annesso dell’amore: riposo riflesso, riflesso in due corpi. Ma ciò che qui mi interessa è il mistero specifico del sonno per il sonno stesso, l’inevitabile immersione che notte dopo notte l’uomo nudo, solo e disarmato, compie audacemente in un oceano dove tutto cambia, i colori e le densità, fino al ritmo del respiro, e dove incontriamo i morti. Ciò che ci tranquillizza nel sonno è che ne usciamo di nuovo, e ne usciamo immutati, poiché una strana interdizione ci impedisce di portare con noi il residuo esatto dei nostri sogni. Ci tranquillizza anche il fatto che ci cura dalla fatica, ma quella cura temporanea si realizza tramite il più radicale dei procedimenti, quello di smettere di essere. Lì, come in altre cose, il piacere e l’arte consistono nell’abbandonarsi consapevolmente a quella benefica incoscienza, nell’accettare di essere, sottilmente, più deboli, più pesanti, più leggeri e più confusi di noi stessi. Tornerò a riferirmi alla sorprendente popolazione dei sogni. Ora preferisco parlare di certe esperienze di sonno puro, di puro risveglio, che sfiorano la morte e la resurrezione. Mi sforzo di afferrare di nuovo l’esatta sensazione di quei sogni fulminanti dell’adolescenza, quando ci si addormentava vestiti sui libri, strappati di colpo dalle matematiche e dal diritto, e immersi nel profondo di un sonno solido e pieno, così carico di energia inutilizzata, che in esso si assaporava, per così dire, il puro senso dell’essere attraverso le palpebre chiuse. Evoco i bruschi sonni sulla terra nuda, nella foresta, al termine di faticose cacce: il latrato dei cani mi svegliava, o le loro zampe piantate sul mio petto. Così totale era l’eclissi, che ogni volta avrei potuto trovarmi ad essere un altro, e mi stupiva —a volte mi rattristava— il rigoroso riadattamento che da così lontano mi riportava a quel ristretto rifugio di umanità che ero io stesso. Cosa valevano quelle particolarità che tanto contano per noi, se così poco contavano per il libero dormiente e se per un secondo, prima di tornare scontento nella pelle di Adriano, riuscivo ad assaporare quasi consapevolmente quell’uomo vuoto, quell’esistenza senza passato?
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