Il mito dell'umanità: tra retorica e responsabilità individuale«Chi dice umanità cerca di ingannarti» recita una famosa citazione di Carl Schmitt. I tempi in cui viviamo sono forse la conferma più nitida di tale perentoria affermazione. Avete mai ascoltato una persona sensata predicare qualche cosa che appartenga autenticamente all’umanità?

Se proviamo ad attribuire un senso alle espressioni: «l’umanità è colta» o «l’umanità è analfabeta» o «l’umanità è pacifica» o «l’umanità è guerrafondaia» vedremo immediatamente come tali preposizioni non solo risultino inesatte se confrontate con la realtà ma anche ingannevoli, come già aveva intuito Schmitt.
L’umanità, invece, altro non è che una parola che designa l’insieme dei soggetti o meglio dei popoli che vivono sulla terra, un termine per definizione inesatto in quanto non esperibile nemmeno come somma.

È una concezione astratta, nel cui nome si sono commessi (e si continuano a perpetrare) grandi delitti lungo il corso della storia. L’umanità non è un soggetto della storia, non agisce, non subisce azioni, non si trova in una o altra situazione, dell’umanità non si può predicare nulla, l’umanità non si può né amare né ammirare eppure è evocata quotidianamente a piè sospinto dalle grandi potenze che regolano il mondo, cartina di tornasole utile ai dominanti per trascrivere mappe concettuali predeterminate a detrimento dei dominati, abbagliati dal candore di tale termine apparentemente universale.

Si delinea quindi nuovamente un antico conflitto che vede frapposti da un lato l’esistenza autentica dell’uomo, dall’altra l’essenza di questo, inautentica e astratta.

La tradizione del pensiero occidentale, incalzata dalle filosofie di Platone e Aristotele, ha sempre cercato di cogliere la natura delle cose individuandone le essenze; ad esempio, per essenza del cavallo ciò che unifica tutti i cavalli empirici che possono presentarsi in natura in tutta la loro varietà (grandi, piccoli, di colori diversi, etc), quindi tutti accomunati da un’essenza che è quella del cavallo.
Il problema che i pensatori esistenzialisti si pongono, ora più che mai tornato attuale, è che l’uomo non è sufficientemente definito se lo si archivia mediante un’essenza. Uomo come essenza, alla stregua di umanità, è un termine generico che non ci dice nulla che esaurisca autenticamente la sua natura, la sua essenza.

Un pensatore rinascimentale, Pico della Mirandola, aveva teorizzato che l’uomo ha per essenza quella di non avere un’essenza, quindi il doversi determinare da sé, squalificando qualsiasi concezione generalizzante.
Il discorso esistenzialista, per certi versi, partendo da questa assenza di essenza, riprende un discorso che può essere riassunto in questi termini: ciò che definisce autenticamente l’uomo è la sua concreta, storica, esistenziale individualità e non il fatto di corrispondere ad un’astratta definizione quale può essere umanità.

Prendiamo ad esempio la preposizione «l’uomo è un animale ragionevole»: chi di noi si sente sufficientemente definito per compiere tale generalizzazione attorno all’uomo?
Quando si parla di ragione, quali e quanti criteri vanno fissati perché questa venga reputata tale?
Certo, noi possiamo definirci uomini ragionevoli perché agiamo in un orizzonte cognitivo, così come possiamo definirci bianchi e neri, europei e africani, autoctoni come immigrati; eppure queste categorie funzionali a definire l’essenza uomo non ci dicono qualcosa di più sulla nostra reale condizione di uomini.
Questo “di più” mancante è la concretezza esistenziale di ogni individuo sulla quale il pensiero contemporaneo dovrebbe tornare a porre l’accento.

Di tale concretezza fa parte essenzialmente il tema della libertà ed è per questo che tale esistenzialismo deve tornare ad essere una filosofia incentrata sulla problematica dell’individualità, dell’essere agenti della propria storicità e della singolarità irripetibile di ciascun individuo.
La riscoperta di tale autenticità della natura umana deve però passare obbligatoriamente dall’abolizione di termini pass-partout come umanità, oggi consunto dall’uso vago e retorico che se ne fa.

La pretesa di un colpo d’occhio oggettivo sul mondo e del rapporto di questo con il vivere umano è insostenibile poiché ogni uomo, in quanto pensante, non è che un singolo esistente immerso nella temporalità.
Chi usa il termine umanità non solo cerca l’inganno ma è anche immorale, in quanto nell’astratto collettivo cerca riparo dalla propria responsabilità individuale, alimentando la società moderna dove vige il principio dell’anonimo a danno del singolo.
Là dove si invoca umanità vi è una situazione storica in cui tale messaggio apparentemente universale a parole, è di fatto reso lettera morta, sottoposto a compromessi e mondanizzato, privato della sua verità più profonda e terribile.
Un’umanità siffatta non esiste; esistono gli uomini.

Crediti
 Giorgio Pasquali
 SchieleArt •   • 



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