Sapere, capire nel senso più pieno, significa immergersi in un’illuminazione di inanità, un paesaggio invernale della memoria la cui sostanza è tutta ombre e una profonda consapevolezza degli spazi infiniti che ci circondano su tutti i lati. All’interno di questo spazio rimaniamo sospesi solo con l’aiuto di corde che vibrano con le nostre speranze e i nostri orrori, e che ci tengono penzoloni sull’abisso grigio. Come si può difendere tale farsa, condannare ogni tentativo di liberarci da queste corde? La ragione, si deve supporre, è che nulla è più allettante, nulla di più vitale idiozia, del nostro desiderio di avere un nome – anche se è il nome di uno stupido piccolo burattino – e di aggrapparsi a questo nome per tutto il lungo calvario delle nostre vite come se potessimo rimanervi aggrappati per sempre. Se solo potessimo impedire a quelle preziose corde di sfilacciarsi e aggrovigliarsi, se solo potessimo evitare di cadere nel cielo vuoto, continueremmo a spacciare noi stessi sotto i nostri falsi nomi e perpetuare la nostra danza di burattini per tutta l’eternità.
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