Pareva, per un momento, di aver raggiunto un nuovo punto. Non era il momento per digressioni, ma le rendeva inevitabili, come il sipario alla fine di un atto. Ci si trovava di fronte a un punto di non ritorno, dove ogni ulteriore progresso era possibile solo dopo una lunga discussione, anche se questa proibiva ogni discussione. La vita si era trasformata in un silenzio, ma si capiva che il silenzio non avrebbe portato da nessuna parte. Era diventato impossibile respirare liberamente in quell’atmosfera oppressa. Mangiavamo poco, pensando che in questo modo avremmo potuto generare il vuoto interiore da cui può scaturire la comprensione, l’albero delle contraddizioni, vive e gioiose, che rivestono il vuoto con il loro complicato essere materiale. Eravamo circondati da cose vecchie, che non avevano bisogno di essere messe in discussione ma che emanavano informazioni sommisse, e da certe cose nuove che portavano la loro novità come una qualità, forse come una conferma del presente, in ogni caso come un voto di fiducia nella circolazione del nuovo creato come un linguaggio normale accessibile a tutti gli uomini di buona volontà, per quanto turbolenti diventassero i tempi. Gradualmente, diventavamo meno consapevoli dell’idea di non tornare indietro, imposta come condizione per il progresso, mentre ci immergavamo nel presente magico che tutto trascinava con sé – il vecchio e il nuovo – nella rete del suo incanto contagioso. Sicuramente sarebbe stato possibile sfruttare le opportunità di questo nuovo clima di collaborazione come se fosse una carta d’identità e non una vaga sensazione di benessere, come un giorno mite all’inizio della primavera, pronto a essere infranto dal primo calo stagionale della temperatura. Nel frattempo, c’era la sensazione che ognuno si dedicasse ai propri affari, tranquillo nell’euforia di quel successo, come se bastasse seguire un certo sentiero per garantire il raggiungimento di una meta. Tuttavia, le destinazioni erano poche. Cosa si cercava davvero in quel sentimento costruttivo? Una casa lungo il cammino dove poter restare indefinitamente, coordinando nuove opportunità e risolvendo le vecchie in modo che si mescolassero in una massa armonica che potesse essere chiamata vita con un senso di scopo? No, ciò che si cercava e che mancava in questo deserto folle e salutare era una fine alla teoria della fine, secondo la quale un uomo era sia un idolo che il più umile degli idolatri, in altre parole, le antitesi del nostro universo, la propria redenzione o condanna, con il resto del mondo come sfondo del proprio monodramma di auto-realizzazione, in cui si agiva da appassionato spettatore. Ma il mondo si vendica di chi cerca di perderlo cercando di saltare l’obbligatorio processo di eliminazione, per qualsiasi motivo altruista, inserendosi così rigorosamente in questi sforzi di rinnovamento personale che nessuna bilancia può spostare l’immagine positiva o negativa di tutto ciò che è contemplato dalle potenzialità presenti o dalle grandi e sane semplificazioni del futuro. E così tutto andò perduto, o almeno tutto ciò che era all’ombra che infonde noia e dolore nei membri sotto il velo di una soddisfazione estatica. Di nuovo, non c’era nessun posto dove andare, cioè nessun luogo che non fosse beffa del luogo appena abbandonato, gettando ogni progresso verso un presente eternamente mal applicato. Questo era lo stadio a cui ci avevano portato la ragione e l’intuizione operando in perfetta alleanza, ma difficilmente si poteva biasimarle per il fatto che la paura delle ombre più oscure dell’oscurità in agguato iniziò a farci pensare di fermarci da qualche parte per la notte, così come un serio dubbio che quel luogo esistesse sulla faccia della terra.
Immagini del presente magico
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