Nelle fiabe, come si sa, non ci sono strade. Si cammina davanti a sé, la linea è retta all’apparenza. Alla fine quella linea si svelerà un labirinto, un cerchio perfetto, una spirale, una stella — o addirittura un punto immobile dal quale l’anima non partì mai, mentre il corpo e la mente faticavano nel loro viaggio apparente. Di rado si sa verso dove si vada, o anche solo verso che cosa si vada; perché non si può sapere […]
Dunque, poiché la cosa della quale si parte in cerca non può né deve avere un volto, come riconoscere i mezzi per raggiungerla se non dopo averla raggiunta, e che mai potrà essere la meta se non una meta apparente? […]
Non è dato aspettarsi la fine di un sogno, ci si desta spontaneamente quando il sogno è finito. I fiori non si apriranno se ci si aspetta che s’aprano, ciò avverrà da sé quando il tempo sia maturo. L’illuminazione verso la quale si procede così *non si raggiunge
*. Essa verrà da sé, quando il tempo sia maturo.
La meta cammina dunque a fianco del viaggiatore […]. O lo attende alle spalle […]. In realtà egli l’ha in sé da sempre e viaggia verso il centro immobile della sua vita: lo speco vicino alla sorgente, la grotta — là dove infanzia e morte, allacciate, si confidano il loro reciproco segreto.
Quanto paradossale dunque l’idea, pure esattissima, di viaggio, di sforzo, di pazienza. In questo paradosso è il crocevia tra l’eterno e il tempo, perché la forma deve distruggersi da sé, ma solo nel momento in cui si compie perfettamente.
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