Camerino dell’Opéra Comique, alla fine di Romeo e Giulietta. S’affaccia un gigante. Ieratico, elegantissimo, nel suo abito blu notte. Statuario. Carmelo Bene, madido di sudore, davanti allo specchio, si va struccando da Mercuzio, sul tavolo le foto dei comatosi di guerra di David Harali. Bonsoir maître. Jacques Lacan (pas maître). Ancora Lacan. Je veux relîre tout Shakespeare.
Ricorda Carmelo Bene: Mi ostinai a dargli le spalle, per averlo tutto e niente allo specchio. Lui taceva, io tacevo. Lì per lì non presi atto ch’era quel silenzio reciproco la tregua dell’agire-patire. Ripensai alle infantili combines con Pierre Klossowski, ai generosi, scambievoli flussi con Gilles Deleuze, del nostro così dichiarato essere l’uno per l’altro. E invece lui taceva. E io tacevo. L’ascolto che ascoltava. Oltre i vetri chiusi, i nasi spiaccicati dei lacaniani adoranti, eredi senza eredità di un geniale clown che non ha lasciato nemmeno le briciole del suo spericolato andar fuor di strada. Devo alla sovrintelligenza di Lacan e alla mia lucida spossatezza questo memorabile incontro a vuoto, concedendo un bel nulla alla frastica delle convenienze di che gli uomini si gingillano e si annientano dalla mattina alla sera, pur di non correre il rischio di dirsi tutto, tacendo.
Tacere: ecco un bel modo di dichiararsi amore e rispetto.
Disparve Lacan, come era apparso, felpato, tra i flash dei fotografi in calore e le occhiaie concupiscenti dei suoi e dei miei fans. Strizzato dal curiosare dei soliti cronisti, mi risulta che rilasciò quest’unica frase: Dans tout les cas il sait ce qu’il fait.
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