Il realista dovrà dunque sostenere sempre, contro l’idealista, che a ogni dimensione della realtà deve corrispondere un determinato approccio e una determinata ermeneutica. Solo allora il realista, essendosi rifiutato di legarsi a una critica preliminare della conoscenza, sarà libero — molto più libero dell’idealista — di dedicarsi a una critica delle diverse conoscenze, commisurando ciascuna di esse al suo specifico oggetto. Perché una intelligenza critica è capace di criticare tutto, tranne se stessa, mentre il realista, proprio perché non pensa di essere l’intelligenza in persona, è capace di fare sempre autocritica. Se si tratta delle scienze umane, un realista non penserà mai che una psicologia che si colloca fuori della coscienza (per conoscerla meglio, dicono) gli fornisca l’equivalente della coscienza; ne penserà mai, come fa Emile Durkheim, che i veri selvaggi si trovino nei libri; tanto meno penserà che il sociale si riduca a una costrizione accompagnata da sanzioni, come se la sola realtà sociale che dobbiamo spiegare sia quella del Levitico. Analogamente, se si tratta delle scienze storiche un realista non penserà che la critica storiografica si trovi in condizioni migliori dei testimoni stessi per sapere che cosa essi hanno veramente visto e per interpretare il senso esatto della loro testimonianza. Ecco perché il realismo, subordinando ogni tipo di conoscenza al proprio oggetto specifico, mette l’intelligenza nelle condizioni più favorevoli alla ricerca scientifica: se e vero, infatti, che qualche volta i testimoni hanno riferito gli avvenimenti della storia in modo troppo soggettivo, è anche vero che gli errori parziali e relativi che essi hanno potuto commettere sono poca cosa se confrontati con gli errori che ci fa commettere la nostra fantasia quando pretendiamo di ricostruire avvenimenti, sentimenti e idee che non abbiamo personalmente sperimentato basandoci solo sull’idea che abbiamo noi del verosimile.
Vademecum del realista principiante
a cura di Antonio Livi e Maria Antonietta Mendosa
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