Dopo un po’, mi sono reso conto che Bennie si era avvicinato. – Di musica ne fai ancora, Scotty? – mi ha chiesto con gentilezza.
– Ci provo, – ho risposto. – Di solito da solo, per essere più libero. – Sono riuscito ad aprire gli occhi, ma non a guardarlo.
– Eri un chitarrista pazzesco, – ha detto lui. Poi mi ha chiesto: – Sei sposato?
– Divorziato. Da Alice.
– Lo so, – ha detto lui. – Dicevo se ti eri risposato.
– È durata quattro anni.
– Mi spiace, bello.
– Meglio così, – ho detto io. Poi mi sono voltato a guardare Bennie. Era in piedi con la schiena rivolta alla finestra, e mi sono chiesto se ogni tanto si preoccupasse di guardare fuori, se per lui il fatto di avere tutta quella bellezza così a portata di mano significasse qualcosa. – E tu?, – gli ho chiesto.
– Sposato. Con un figlio di tre mesi.
A quel punto ha sorriso, un sorriso sfuggente, imbarazzato al pensiero di quel bimbo piccolo, come se sapesse di non meritare tanto. E dietro il sorriso di Bennie c’era ancora la paura: che fossi andato a stanarlo per portargli via quei doni che la vita gli aveva fatto piovere addosso, spazzandoli via nel giro di pochi, enfatici secondi. Per poco non mi piegavo in due a ridere: Ehi, bello, ma non capisci? Tu non hai niente che non abbia anch’io! Sono solo X e O, e quelle ci si può arrivare in un milione di modi diversi. Ma due pensieri mi hanno distratto, mentre stavo lì ad annusare la paura di Bennie: (1) Io non avevo quel che aveva lui. (2) Aveva ragione…
Io non avevo quel che aveva lui
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