Ci sono momenti in cui leggere Wallace diventa insostenibile, e il peso degli ostacoli che si accumulano di fronte al lettore sono insormontabili: mancanza di contesto, complessità retorica, individui orrendi, argomento grottesco o assurdo, lingua che è – allo stesso tempo! – puerilmente scatologica e fastidiosamente sibillina. E se uno è abituato a trovare sollievo nel carattere dei personaggi, be’, allora con Wallace si trova davvero in un vicolo cieco. I suoi racconti non indagano affatto il carattere dei personaggi: non se lo propongono neanche. Sono viceversa rivolti all’esterno, verso di noi. È il nostro carattere quello che viene sottoposto a indagine. Ma non si tratta propriamente di metafiction. L’autore di metafiction usava la ricorsività per sottolineare la mediatezza della voce narrante: per dire, in buona sostanza: Io sono l’acqua, e voi state nuotando dentro di me. La ricorsività, per questo tipo di autore, significa ritornare su sé stessi, circolarmente, in una serie infinita di regressioni. Questo testo non è neutrale, viene scritto da qualcuno, lo sto scrivendo io, ma io chi sono? E così via. Quello che è ricorsivo nei racconti di Wallace non è la sua voce narrativa ma il modo in cui scorrono le storie, e cioè come verbali di processi matematici, in cui almeno una delle fasi del processo richiede una nuova esecuzione di tutto il processo in questione. E siamo noi a doverle far scorrere in questo modo. Wallace ci colloca all’interno del processo ricorsivo, ecco perché leggerlo è spossante sul piano emotivo e intellettuale.
Io sono l’acqua
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