Donna seduta con un corsetto e stivali
Supponiamo che, ad un certo momento, una persona che sta scrivendo una lettera ad un’altra persona – il sesso o i sessi sono irrilevanti – abbia il sospetto, o forse semplicemente s’accorga di essere lievemente ubriaco. No, non si tratta di ubriachezza molesta, chiassosa e ripugnante – se non per il fatto che l’ubriachezza, iperbole dell’esistenza, ne mette in evidenza (si diceva nei temi) l’intrinseca repellenza.
Lo scrivente, tocco dalla rivelazione della propria ebrezza, potrebbe semplicemente attenersi dallo scrivere oltre. La torbida lucidità dell’ebrezza potrebbe suggerirgli di astenersi da qualunque ulteriore colloquio. Ma, se si astenesse dallo scrivere oltre, egli darebbe una interpretazione ragionevole della irragionevolezza propria della ebrietà; dunque, egli potrebbe dimettersi dal suo trono di scrivente, solo in quanto riconoscesse se stesso come disebro, recitazione, maschera, falsario di se medesimo ebro. Ma, dal momento in cui egli si è accorto, o ha creduto di essere consapevole di essersi accorto, della propria ebrezza, ad essa non intende, non vuole, non tollera di rinunciare. E dunque, da questo momento in poi, la sua ebrezza sarà volontaria, una scelta non necessaria, anche se fortemente consigliata dalla sonnolenza, dalla irritazione morale, dal disagio e dal benessere bizzarramente congiunti, che tutt’insieme egli considera sintomi di ebrezza. Dunque, continuerà a scrivere. Ma, dovrà scrivere in modo particolarmente sorvegliato o, al contrario, in modo innocente, impreciso, prelapsario? Egli si rifiuta di sorvegliarsi, giacché sa, da sempre, che la cautela tende al silenzio, non già, poi, al silenzio della astensione, ma alla bruta e brutale astensione del bavaglio. D’altronde, gli ripugna altrettanto l’innocenza, specie questa innocenza raccattata dalla complicità di un bicchiere di succo fermentato. Ma, non appena ha finito di scrivere queste parole, o di pensarle, non può non chiedersi quale altra innocenza mai si dia, se non questa, un poco tossica e sbadata. Dunque, è sull’innocenza che egli deve dare sentenza, sulla propria innocenza. Non esiste dunque nessun compromesso tra la codardia di questa innocenza, e la dignità della menzogna? Mio caro scrive se tutto è turpe, eccetto la turpitudine, non dovrò forse perseguire la pace innocente della turpitudine?. Ma le parole lo sfidano, ed è furente.

Crediti
 Giorgio Manganelli
 Centuria
 SchieleArt •  Donna seduta con un corsetto e stivali • 1918



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