La politica come 'professione' o come 'vocazione'

Max Weber scrisse un breve saggio su La politica come professione/vocazione. In effetti, la funzione politica può essere interpretata e vissuta esistenzialmente e biograficamente dal soggetto come una professione burocratica, in certi casi molto lucrativa, o come una vocazione motivata da ideali, valori, norme di contenuti normativi che mobilitano la soggettività del politico verso una responsabilità a favore dell’altro, del popolo. All’inizio del XXI secolo i politici (rappresentanti eletti per l’esercizio del potere istituzionalizzato, la potestas) hanno costituito gruppi elitari che si sono corrotti, dopo l’enorme logorio delle rivoluzioni del xx secolo, dopo il fallimento di molti movimenti politici spinti da grandi ideali, dopo la crisi economica, e dopo l’aumento delle difficoltà della gioventù a trovare posti di occupazione salariata fissa (a causa della disoccupazione crescente strutturale).
È impossibile motivare la gioventù, che decida di intraprendere la funzione del politico (o coloro che già da tempo, nella loro gioventù, fecero questa scelta), come si faceva un tempo per mezzo di virtù, o per mezzo di valori astratti di una società aristocratica in decadenza. Il giovane, bombardato dai mass media, dalla moda, dalla totalità del mondo quotidiano immerso dentro l’orizzonte di una società capitalista, che impone per mezzo del mercato i suoi ideali di ostentazione, superficialità, difficilmente può superare le esigenze di aumentare la sua ricchezza per poter comprare e mostrare quei segni cari (monetariamente) di differenza (direbbe J. Baudrillard). Non è, dunque, impossibile immaginare che colui che sceglie la professione del politico accetti rapidamente le proposte di Faust e venda la sua anima al diavolo della feticizzazione, usando l’esercizio del potere per i propri fini, personali o di gruppo. Così nasce la politica come professione e i partiti politici come macchine elettorali che impongono i loro candidati burocratizzati a beneficio del proprio partito. È la feticizzazione del potere mediante la corruzione della soggettività del politico.
Al contrario, ci sarà da lottare per la nascita e la crescita di una nuova generazione di patrioti, di giovani che si decidano a reinventare la politica, l’altra politica, come Spartaco, Giovanna d’Arco, G. Washington, M. Hidalgo, o S. Bolivar, fino a un Che Guevara, Fidel Castro o Evo Morales. Tutti questi non furono politici di professione. Erano schiavi, pastori, proprietari di fattorie, preti o intellettuali, medici, avvocati o sindacalisti, ma per responsabilità etica si trasformarono in servitori delle loro comunità, dei loro popoli, in molti casi fino alla morte. Cosa si può offrire più della vita? In altri casi una fedeltà incorruttibile nell’esercizio delegato del potere a favore dei loro popoli. Non ostentarono l’autorità delegata per aumentare il loro prestigio o la loro ricchezza. La loro gloria, ancor più essendo perseguitati dai nemici del popolo che liberavano, consistette nel rimanere fedeli, fino alla fine, nella perseveranza della loro vocazione.
Vocazione significa essere-chiamato (dal verbo vocare) a compiere una missione. Colui che chiama è la comunità, il popolo. Il chiamato è colui che si sente convocato ad assumere la responsabilità del servizio. Felice colui che compie fedelmente la vocazione! Maledetto colui che la tradisce perché sarà giudicato a suo tempo o dalla storia! Augusto Pinochet, l’11 settembre 1973, sembrava essere un eroe demiurgico intoccabile. Gli umiliati governanti popolari e democratici, come Salvador Allende, morivano nelle sue mani blindate. Nel 2006 è oggetto di giudizio, non solo perché fu un dittatore, ma anche un ladro del popolo, e con lui è condannata sua moglie e i suoi figli! Chi lo avrebbe sospettato al momento del golpe, quando era appoggiato da Henry Kissinger e da tutti i potenti dell’Occidente? I Carlos Menem e i Carlos Salinas de Gortari avranno la stessa sorte.

Max Weber scrisse un breve saggio su La politica come professione/vocazione. In effetti, la funzione politica può essere interpretata e vissuta esistenzialmente e biograficamente dal soggetto come una professione burocratica, in certi casi molto lucrativa, o come una vocazione motivata da ideali, valori, norme di contenuti normativi che mobilitano la soggettività del politico verso una responsabilità a favore dell’altro, del popolo. All’inizio del XXI secolo i politici (rappresentanti eletti per l’esercizio del potere istituzionalizzato, la potestas) hanno costituito gruppi elitari che si sono corrotti, dopo l’enorme logorio delle rivoluzioni del xx secolo, dopo il fallimento di molti movimenti politici spinti da grandi ideali, dopo la crisi economica, e dopo l’aumento delle difficoltà della gioventù a trovare posti di occupazione salariata fissa (a causa della disoccupazione crescente strutturale).
È impossibile motivare la gioventù, che decida di intraprendere la funzione del politico (o coloro che già da tempo, nella loro gioventù, fecero questa scelta), come si faceva un tempo per mezzo di virtù, o per mezzo di valori astratti di una società aristocratica in decadenza. Il giovane, bombardato dai mass media, dalla moda, dalla totalità del mondo quotidiano immerso dentro l’orizzonte di una società capitalista, che impone per mezzo del mercato i suoi ideali di ostentazione, superficialità, difficilmente può superare le esigenze di aumentare la sua ricchezza per poter comprare e mostrare quei segni cari (monetariamente) di differenza (direbbe J. Baudrillard). Non è, dunque, impossibile immaginare che colui che sceglie la professione del politico accetti rapidamente le proposte di Faust e venda la sua anima al diavolo della feticizzazione, usando l’esercizio del potere per i propri fini, personali o di gruppo. Così nasce la politica come professione e i partiti politici come macchine elettorali che impongono i loro candidati burocratizzati a beneficio del proprio partito. È la feticizzazione del potere mediante la corruzione della soggettività del politico.
Al contrario, ci sarà da lottare per la nascita e la crescita di una nuova generazione di patrioti, di giovani che si decidano a reinventare la politica, l’altra politica, come Spartaco, Giovanna d’Arco, G. Washington, M. Hidalgo, o S. Bolivar, fino a un Che Guevara, Fidel Castro o Evo Morales. Tutti questi non furono politici di professione. Erano schiavi, pastori, proprietari di fattorie, preti o intellettuali, medici, avvocati o sindacalisti, ma per responsabilità etica si trasformarono in servitori delle loro comunità, dei loro popoli, in molti casi fino alla morte. Cosa si può offrire più della vita? In altri casi una fedeltà incorruttibile nell’esercizio delegato del potere a favore dei loro popoli. Non ostentarono l’autorità delegata per aumentare il loro prestigio o la loro ricchezza. La loro gloria, ancor più essendo perseguitati dai nemici del popolo che liberavano, consistette nel rimanere fedeli, fino alla fine, nella perseveranza della loro vocazione.
Vocazione significa essere-chiamato (dal verbo vocare) a compiere una missione. Colui che chiama è la comunità, il popolo. Il chiamato è colui che si sente convocato ad assumere la responsabilità del servizio. Felice colui che compie fedelmente la vocazione! Maledetto colui che la tradisce perché sarà giudicato a suo tempo o dalla storia! Augusto Pinochet, l’11 settembre 1973, sembrava essere un eroe demiurgico intoccabile. Gli umiliati governanti popolari e democratici, come Salvador Allende, morivano nelle sue mani blindate. Nel 2006 è oggetto di giudizio, non solo perché fu un dittatore, ma anche un ladro del popolo, e con lui è condannata sua moglie e i suoi figli! Chi lo avrebbe sospettato al momento del golpe, quando era appoggiato da Henry Kissinger e da tutti i potenti dell’Occidente? I Carlos Menem e i Carlos Salinas de Gortari avranno la stessa sorte.
Il potere come 'ob-bedienza'

Colui che comanda è il rappresentante che deve compiere la funzione della potestas. È eletto per esercitare in forma delegata il potere della comunità; deve farlo in funzione delle esigenze, delle rivendicazioni, dei bisogni della comunità. Quando dal Chiapas ci si insegna che coloro che comandano devono comandare obbedendo si indica con estrema precisione questa funzione di servizio del funzionario (colui che compie una funzione) politico, che esercita come delegato il potere obbedienziale.
Abbiamo così un circolo categoriale ancora politico (cioè senza essere ancora caduti nella corruzione feticizzante del potere come dominazione). Il potere della comunità (potentia) si dà istituzioni politiche (potestas) che sono esercitate in forma delegata da rappresentanti eletti per compiere le esigenze della vita piena dei cittadini, le esigenze del sistema di legittimità, entro dello strategicamente fattibile. Si attribuisce al rappresentante una certa autorità (perché la sede della auctoritas non è il governo, bensì sempre in ultima istanza la comunità politica, benché G. Agamben non lo precisi) affinché compia più soddisfacentemente in nome del tutto (della comunità) gli incarichi della sua funzione; non agisce a partire da sé come fonte di sovranità e autorità ultima, bensì come delegato, e in quanto ai suoi obiettivi dovrà operare sempre a favore della comunità, ascoltando le sue esigenze e reclami. Ascoltare colui che si ha davanti cioè obbedienza, è la posizione soggettiva primaria che deve possedere il rappresentante, il governante, colui che compie qualche funzione di una istituzione politica.
Il potere obbendienziale sarebbe così l’esercizio delegato del potere di ogni autorità che soddisfa la pretesa politica di giustizia; in altra maniera, del politico retto che può aspirare all’esercizio del potere, perché ha la posizione soggettiva necessaria per lottare in favore della felicità empiricamente possibile di una comunità politica, di un popolo.
Questo circolo è un processo che produce, riproduce e aumenta la vita della comunità e di ciascuno dei suoi membri, realizzando i requisiti della legittimità democratica, entro l’orizzonte del realismo critico di una fattibilità strategica e strumentale, sempre allo stesso tempo normativa.
In questa maniera avremmo tentato di descrivere il potere, nel suo senso proprio, positivamente (e non semplicemente come dominazione), come la forza, la volontà consensuale che opera azioni e si dà istituzioni a favore della comunità politica. Ciascuna delle istituzioni, dalle micro-istituzioni della società civile (alle quali M. Foucault presta tanta attenzione) come dalle macro-istituzioni della società politica (le quali M. Bakunin tanto critica), ha un certo esercizio di potere, in strutture disseminate in tutto il campo politico, entro sistemi specifici, in maniera che in ciascuna di esse si possa compiere questo carattere obbendenziale. Il campo politico, in senso stretto, non è uno spazio vuoto, bensì è come un campo minato, pieno di reti, nodi pronti ad esplodere a partire da conflitti che sorgono da rivendicazioni incompiute (sapendo che in maniera perfetta non si può mai compierle tutte).

Colui che comanda è il rappresentante che deve compiere la funzione della potestas. È eletto per esercitare in forma delegata il potere della comunità; deve farlo in funzione delle esigenze, delle rivendicazioni, dei bisogni della comunità. Quando dal Chiapas ci si insegna che coloro che comandano devono comandare obbedendo si indica con estrema precisione questa funzione di servizio del funzionario (colui che compie una funzione) politico, che esercita come delegato il potere obbedienziale.
Abbiamo così un circolo categoriale ancora politico (cioè senza essere ancora caduti nella corruzione feticizzante del potere come dominazione). Il potere della comunità (potentia) si dà istituzioni politiche (potestas) che sono esercitate in forma delegata da rappresentanti eletti per compiere le esigenze della vita piena dei cittadini, le esigenze del sistema di legittimità, entro dello strategicamente fattibile. Si attribuisce al rappresentante una certa autorità (perché la sede della auctoritas non è il governo, bensì sempre in ultima istanza la comunità politica, benché G. Agamben non lo precisi) affinché compia più soddisfacentemente in nome del tutto (della comunità) gli incarichi della sua funzione; non agisce a partire da sé come fonte di sovranità e autorità ultima, bensì come delegato, e in quanto ai suoi obiettivi dovrà operare sempre a favore della comunità, ascoltando le sue esigenze e reclami. Ascoltare colui che si ha davanti cioè obbedienza, è la posizione soggettiva primaria che deve possedere il rappresentante, il governante, colui che compie qualche funzione di una istituzione politica.
Il potere obbendienziale sarebbe così l’esercizio delegato del potere di ogni autorità che soddisfa la pretesa politica di giustizia; in altra maniera, del politico retto che può aspirare all’esercizio del potere, perché ha la posizione soggettiva necessaria per lottare in favore della felicità empiricamente possibile di una comunità politica, di un popolo.
Questo circolo è un processo che produce, riproduce e aumenta la vita della comunità e di ciascuno dei suoi membri, realizzando i requisiti della legittimità democratica, entro l’orizzonte del realismo critico di una fattibilità strategica e strumentale, sempre allo stesso tempo normativa.
In questa maniera avremmo tentato di descrivere il potere, nel suo senso proprio, positivamente (e non semplicemente come dominazione), come la forza, la volontà consensuale che opera azioni e si dà istituzioni a favore della comunità politica. Ciascuna delle istituzioni, dalle micro-istituzioni della società civile (alle quali M. Foucault presta tanta attenzione) come dalle macro-istituzioni della società politica (le quali M. Bakunin tanto critica), ha un certo esercizio di potere, in strutture disseminate in tutto il campo politico, entro sistemi specifici, in maniera che in ciascuna di esse si possa compiere questo carattere obbendenziale. Il campo politico, in senso stretto, non è uno spazio vuoto, bensì è come un campo minato, pieno di reti, nodi pronti ad esplodere a partire da conflitti che sorgono da rivendicazioni incompiute (sapendo che in maniera perfetta non si può mai compierle tutte).
Rappresentazione e 'servizio'

Il rappresentante, come il suo nome indica, rappresenta il cittadino, membro della comunità politica, che eleggendo il rappresentante si costituisce come rappresentato (una certa passività inevitabile ma che ha il suo rischio). Il rischio consiste nel fatto che, benché la delegazione del potere originario (quello della comunità, la potentia) è necessaria (contro lo spontaneismo di un certo populismo o anarchismo), e benché debba essere continuamente rigenerata dall’assemblea della diretta comunità faccia-a-faccia (al di sotto del municipio, come assemblee di quartiere, comuni, comunità di base, ecc.), tuttavia si può feticizzare; cioè, la rappresentanza può ritornare a sé stessa e autoaffermarsi come l’ultima istanza del potere.
Ripetendo. Si delega a qualcuno il potere affinché rappresenti, al livello dell’esercizio istituzionale del potere, la comunità, il popolo. Questo è necessario ma, allo stesso tempo, è ambiguo. È necessario, perché la democrazia diretta è impossibile nelle istituzioni politiche che coinvolgono milioni di cittadini. Ma è ambiguo perché il rappresentante può dimenticare che il potere che esercita è per delegazione, in nome dell’altro, come colui che si presenta a un livello istituzionale (potestas) come riferimento al potere della comunità (potentia). È, quindi, obbedienza.
Nel suo senso pieno, politico, originario, la rappresentanza è una delegazione del potere affinché sia esercitato o compiuto al servizio dei rappresentati che lo hanno eletto come loro rappresentante, perché senza differenziazione di funzioni eterogenee non è possibile la riproduzione e il miglioramento della vita della comunità, né l’esercizio delle istituzioni di legittimazione, né ottenere efficacia. Se nella caccia del paleolitico tutti avessero compiuto la stessa funzione (emettere il grido di allerta), nessuno avrebbe cacciato; o se si fosse lasciato al puro caso che ciascuno compisse la funzione a suo piacimento, sarebbe stato il caos, e non si sarebbero cacciati mai la veloce lepre o il fiero leone. Sarebbero morti di fame. La rappresentanza, di nuovo, è necessaria, ma è ambigua. In quanto ambigua non si può però eliminare; la si deve definire, regolamentare, imbottirla di normatività affinché sia utile, efficace, giusta, obbediente alla comunità.
Dopo quanto detto, e come tramite alla seguente tesi, possiamo adesso comprendere che il potere si scinde di nuovo. Non più tra potentia {potere in-sé) e potestas (potere come mediazione), bensì in nuove forme.
In primo luogo, positivamente, come potere obbendenziale (di colui che comanda obbedendo), che un noto testo indica: «Chi vuol essere il primo tra di voi sarà il servo di tutti». In questo caso l’esercizio delegato del potere si compie per vocazione e impegno con la comunità politica, con il popolo.
In secondo luogo, negativamente come potere feticizzato (di colui che comanda comandando) che è condannato, sotto l’avvertimento che sono «coloro che sono ritenuti capi delle nazioni le dominano, e i loro grandi esercitano su di esse il potere». In questo caso l’esercizio autoreferente del potere si compie per il beneficio del governante, del suo gruppo, della sua tribù, del suo settore, della classe borghese. Il rappresentante sarebbe un burocrate corrotto che dà le spalle e opprime la comunità politica, il popolo.

Il rappresentante, come il suo nome indica, rappresenta il cittadino, membro della comunità politica, che eleggendo il rappresentante si costituisce come rappresentato (una certa passività inevitabile ma che ha il suo rischio). Il rischio consiste nel fatto che, benché la delegazione del potere originario (quello della comunità, la potentia) è necessaria (contro lo spontaneismo di un certo populismo o anarchismo), e benché debba essere continuamente rigenerata dall’assemblea della diretta comunità faccia-a-faccia (al di sotto del municipio, come assemblee di quartiere, comuni, comunità di base, ecc.), tuttavia si può feticizzare; cioè, la rappresentanza può ritornare a sé stessa e autoaffermarsi come l’ultima istanza del potere.
Ripetendo. Si delega a qualcuno il potere affinché rappresenti, al livello dell’esercizio istituzionale del potere, la comunità, il popolo. Questo è necessario ma, allo stesso tempo, è ambiguo. È necessario, perché la democrazia diretta è impossibile nelle istituzioni politiche che coinvolgono milioni di cittadini. Ma è ambiguo perché il rappresentante può dimenticare che il potere che esercita è per delegazione, in nome dell’altro, come colui che si presenta a un livello istituzionale (potestas) come riferimento al potere della comunità (potentia). È, quindi, obbedienza.
Nel suo senso pieno, politico, originario, la rappresentanza è una delegazione del potere affinché sia esercitato o compiuto al servizio dei rappresentati che lo hanno eletto come loro rappresentante, perché senza differenziazione di funzioni eterogenee non è possibile la riproduzione e il miglioramento della vita della comunità, né l’esercizio delle istituzioni di legittimazione, né ottenere efficacia. Se nella caccia del paleolitico tutti avessero compiuto la stessa funzione (emettere il grido di allerta), nessuno avrebbe cacciato; o se si fosse lasciato al puro caso che ciascuno compisse la funzione a suo piacimento, sarebbe stato il caos, e non si sarebbero cacciati mai la veloce lepre o il fiero leone. Sarebbero morti di fame. La rappresentanza, di nuovo, è necessaria, ma è ambigua. In quanto ambigua non si può però eliminare; la si deve definire, regolamentare, imbottirla di normatività affinché sia utile, efficace, giusta, obbediente alla comunità.
Dopo quanto detto, e come tramite alla seguente tesi, possiamo adesso comprendere che il potere si scinde di nuovo. Non più tra potentia {potere in-sé) e potestas (potere come mediazione), bensì in nuove forme.
In primo luogo, positivamente, come potere obbendenziale (di colui che comanda obbedendo), che un noto testo indica: «Chi vuol essere il primo tra di voi sarà il servo di tutti». In questo caso l’esercizio delegato del potere si compie per vocazione e impegno con la comunità politica, con il popolo.
In secondo luogo, negativamente come potere feticizzato (di colui che comanda comandando) che è condannato, sotto l’avvertimento che sono «coloro che sono ritenuti capi delle nazioni le dominano, e i loro grandi esercitano su di esse il potere». In questo caso l’esercizio autoreferente del potere si compie per il beneficio del governante, del suo gruppo, della sua tribù, del suo settore, della classe borghese. Il rappresentante sarebbe un burocrate corrotto che dà le spalle e opprime la comunità politica, il popolo.
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