Jan Potocki - Storia del demoniaco Pacheco
Il macabro, lo spettrale, lo stregonesco, il vampiresco, l’erotico, il perverso: tutti gli ingredienti (palesi o nascosti) del romanticismo visionario sono sfoggiati da quel libro straordinario che è il Manuscrit trouvé à Saragosse pubblicato in francese dal conte polacco Jan Potocki (1761-1815). Misterioso nella sua origine e nella sua sorte come nel suo contenuto, questo libro scomparve per più d’un secolo (era d’altronde troppo scandaloso per poter circolare impunemente) e solo nel 1958 è stato ripubblicato come nell’edizione originaria, per merito di Roger Callois, grande connaisseur del fantastico d’ogni tempo e paese.
Ideale preludio al secolo di Hoffmann e di Poe, Potocki non poteva mancare in apertura della nostra antologia; ma siccome si tratta d’un libro in cui i racconti sono inseriti l’uno nell’altro, un po’ come nelle Mille e una notte, formando un romanzo plurimo e difficilmente districabile, siamo obbligati a fare proprio all’inizio un’eccezione alla regola che il resto della nostra antologia intende rispettare. Cioè qui diamo un capitolo del libro staccato dal resto, mentre la nostra regola sarà di dare racconti completi e a sé stanti.
Siamo poco dopo l’inizio del romanzo (Seconda giornata). Alphonse van Worden, ufficiale dell’armata napoleonica, si trova in Spagna; vede un patibolo con due impiccati (i due fratelli di Zoto), poi incontra due bellissime sorelle arabe che gli raccontano la loro storia, pervasa d’un conturbante erotismo. Alphonse amoreggia con entrambe le sorelle, ma nella notte ha delle strane visioni, e all’alba si ritrova abbracciato ai cadaveri dei due impiccati.
Questo tema dell’amplesso con due sorelle (e talora con la loro madre) si ripete nel libro varie volte, nel racconto di vari personaggi, e ogni volta colui che si credeva un amante troppo fortunato si ritrova al mattino sotto il patibolo, tra i cadaveri e gli avvoltoi. Un incantesimo legato alla costellazione dei Gemelli è la chiave del romanzo.
Agli esordi del nuovo genere letterario, Potocki sa con esattezza dove andare: il fantastico è esplorazione della zona oscura in cui si mescolano le pulsioni più sfrenate del desiderio e i terrori della colpa; è evocazione di fantasmi che cambiano di forma come nei sogni; ambiguità e perversione.
Finalmente mi svegliai per davvero; il sole mi bruciava le palpebre – le aprii con fatica. Vidi il cielo. Vidi che mi trovavo all’aperto. Ma il sonno appesantiva ancora i miei occhi. Non dormivo più, ma non ero ancora sveglio. Visioni di supplizi si avvicendavano le une alle altre. Ne fui atterrito, e mi levai a sedere di soprassalto.
Dove trovare le parole per esprimere l’orrore che s’impadronì di me? Ero sdraiato sotto la forca di Los Hermanos.
I cadaveri dei due fratelli di Zoto non erano appesi, ma coricati accanto a me. Si sarebbe detto che io avessi passato la notte con loro. Riposavo su pezzi di corda, rottami di ruote, resti di carcasse umane, e gli orribili stracci che la putrefazione aveva staccato dai corpi.
Pensai di non essere ancora ben sveglio e di fare un sogno penoso. Chiusi gli occhi e cercai nella memoria dove fossi stato la sera prima… In quel momento sentii degli artigli affondarsi nei miei fianchi. Vidi, appollaiato su di me, un avvoltoio che stava divorando uno dei miei compagni di giaciglio. Il dolore causatomi dalla morsa dei suoi artigli finì di svegliarmi del tutto. Vidi accanto a me i miei abiti e mi affrettai a indossarli. Quando fui vestito, volli uscire dal recinto della forca, ma trovai la porta inchiodata e invano provai a sfondarla. Dovetti per forza scalare quella triste muraglia. Ci riuscii e, appoggiandomi a una delle colonne della forca, mi misi a esaminare il paesaggio circostante. Lo riconobbi facilmente. Ero proprio all’imbocco della valle di Los Hermanos, e non lontano dalle rive del Guadalquivir.
Continuando a osservare, scorsi vicino al fiume due viaggiatori, l’uno dei quali preparava uno spuntino mentre l’altro teneva due cavalli per la briglia. Fui così felice di vedere degli uomini, che il mio primo impeto fu di gridar loro: Agur, Agur! che vuol dire, in spagnolo, Buongiorno o Vi saluto.
I due viaggiatori videro gli atti di cortesia che venivan loro rivolti dall’alto della forca e parvero un istante indecisi, ma, di colpo, montarono sui cavalli, li misero al galoppo più veloce, e presero la via degli Alcornoques. Gridai loro di fermarsi, ma invano; più io gridavo, e più loro davano colpi di sperone ai cavalli. Quando li ebbi persi di vista, pensai a lasciare il mio posto. Saltai a terra e mi feci un po’ male.
Zoppicando leggermente, raggiunsi le rive del Guadalquivir e vi trovai la colazione abbandonata dai due viaggiatori; niente poteva venirmi più a proposito, perché mi sentivo spossato. C’era della cioccolata che bolliva ancora, dello sponhao inzuppato nel vino di Alicante, pane e uova. Per prima cosa ristorai le mie forze, poi mi misi a riflettere su quanto mi era accaduto durante la notte. I ricordi erano molto confusi, ma ciò che mi rammentavo benissimo era di aver dato la mia parola d’onore di custodirne il segreto, e io ero ben risoluto a mantenerla. Una volta deciso questo, mi restava soltanto da stabilire l’immediato da farsi, cioè la strada da prendere; e mi parve che le leggi dell’onore mi obbligassero più che mai a passare per la Sierra Morena.
Il lettore forse si sorprenderà di vedermi così preoccupato della mia gloria, e così poco degli avvenimenti del giorno precedente; ma questo modo di pensare era ancora un effetto dell’educazione ricevuta, come si vedrà dal seguito del racconto. Per il momento ritorno a quello del mio viaggio.
Ero molto curioso di sapere ciò che i diavoli avevano fatto del mio cavallo, che avevo lasciato alla Venta Quemada; e poiché, d’altra parte, quella era la mia strada, decisi di passarci. Dovetti fare a piedi tutta la vallata di Los Hermanos e quella della venta, cosa che non mancò di stancarmi e di farmi desiderare molto di ritrovare il mio cavallo. Lo ritrovai, in effetti; era nella stessa scuderia dove l’avevo lasciato, e appariva vivace, ben curato e strigliato di fresco. Non avevo idea di chi avesse potuto prendersi questa cura, ma avevo visto tante cose straordinarie che su questa non mi soffermai a lungo. Mi sarei senz’altro avviato, se non avessi avuto la curiosità di percorrere ancora una volta l’interno della locanda. Ritrovai la stanza dove avevo dormito, ma, nonostante le ricerche, mi fu impossibile trovare quella dove avevo visto le belle Africane. Mi stanca di cercarla più a lungo, montai a cavallo e continuai la mia strada.
Al mio risveglio sotto la forca di Los Hermanos, il sole era già a metà del suo corso. Avevo impiegato più di due ore ad arrivare alla venta. Sicché, dopo un altro paio di leghe, dovetti pensare a un rifugio, ma non vedendone alcuno, continuai sempre a camminare. Finalmente scorsi da lontano una cappella gotica e una capanna che pareva essere la dimora di un eremita. Erano lontane dalla strada maestra, ma poiché cominciavo ad aver fame, non esitai a fare questa deviazione per procurarmi del cibo. Arrivato lì, attaccai il cavallo a un albero. Poi bussai alla porta dell’eremo e ne vidi uscire un religioso dall’aspetto venerabile. Egli mi abbracciò con tenerezza paterna, poi mi rivolse queste parole:
«Entrate, figlio mio; fate presto. Non passate la notte fuori, dovete temere il tentatore. Il Signore ha ritirato la sua mano dal nostro capo.»
Ringraziai l’eremita della bontà che mi dimostrava, e gli dissi che avevo un estremo bisogno di mangiare.
Mi rispose:
«Pensate alla vostra anima, figlio mio. Venite nella cappella. Prosternatevi davanti alla croce. Io penserò ai bisogni del vostro corpo. Ma farete un pasto frugale, come ci si può aspettare da un eremita.»
Passai nella cappella, e realmente pregai, perché non ero un miscredente, e anzi ignoravo che ve ne fossero; questo era ancora un effetto della mia educazione.
Passato un quarto d’ora, l’eremita venne a cercarmi e mi condusse nella sua capanna, dove trovai uno spuntino preparato con una certa cura. C’erano delle olive eccellenti, cardi conservati nell’aceto, cipolle dolci con salsa, e biscotti al posto del pane. C’era anche una piccola bottiglia di vino. L’eremita disse che non ne beveva mai, ma che lo teneva per il sacrificio della messa. Allora mi astenni anch’io dal vino, ma gustai il resto del pasto con grande piacere. Mentre gli stavo facendo onore, vidi entrare nella capanna una figura più terrificante di tutto quanto avessi visto fino allora. Era un uomo apparentemente giovane, ma orribilmente magro. Aveva i capelli irti e un occhio accecato, da cui usciva del sangue. La lingua pendeva fuori dalla bocca e lasciava colare una bava schiumosa. Indossava un abito nero abbastanza decente, ma era il suo solo indumento, non aveva né calze né camicia.
Questo orrendo personaggio non disse niente a nessuno e andò a rannicchiarsi in un angolo, dove restò immobile come una statua, l’unico occhio fissato su un crocifisso che teneva in mano.
Quando ebbi finito di mangiare, domandai all’eremita chi fosse quell’uomo. Egli mi rispose:
«Figlio mio, quest’uomo è un indemoniato che io esorcizzo, e la sua terribile storia mostra assai bene il fatale potere che l’angelo delle tenebre usurpa in questa infelice contrada; il racconto potrebbe essere utile alla vostra salvezza, e io gli ordinerò di farvelo.»
Allora, voltandosi verso l’indemoniato, gli disse:
«Pacheco, Pacheco! Nel nome del tuo redentore, ti ordino di raccontare la tua storia.»
Pacheco lanciò un urlo terribile e cominciò in questo modo.
Storia del demoniaco Pacheco «Sono nato a Cordova, dove mio padre viveva in uno stato di grande agiatezza! Mia madre è morta tre anni fa. In un primo tempo mio padre parve rimpiangerla molto, ma, dopo qualche mese, avendo avuto occasione di fare un viaggio a Siviglia, s’innamorò di una giovane vedova, chiamata Camilla di Tormes. Costei non godeva di una troppo buona reputazione, e molti amici di mio padre cercarono di distoglierlo da questa relazione; ma, a dispetto di tutti i loro sforzi, il matrimonio ebbe luogo due anni dopo la morte di mia madre. Le nozze si fecero a Siviglia e, qualche giorno dopo, mio padre tornò a Cordova con Camilla, la sua nuova sposa, e una sorella di Camilla che si chiamava Inesilla.
«La mia nuova matrigna corrispose perfettamente alla cattiva opinione che la gente aveva di lei, e in casa esordì col voler ispirarmi l’amore. Non ci riuscì. Mi innamorai tuttavia, ma di sua sorella Inesilla. E la mia passione divenne così prepotente che andai a gettarmi ai piedi di mio padre per chiedergli la mano di sua cognata.
«Egli mi rialzò con gentilezza, poi mi disse: Figlio mio, vi proibisco di pensare a questo matrimonio, e ve lo proibisco per tre ragioni. Primo: sarebbe molto sconveniente che voi diventaste in qualche modo cognato di vostro padre. Secondo: i santi canoni della Chiesa non approvano affatto queste specie di matrimoni. Terzo: non voglio che voi sposiate Inesilla. E dopo avermi messo al corrente di queste tre ragioni, mi voltò le spalle e se ne andò.
«Mi ritirai nella mia camera e mi abbandonai alla disperazione. La matrigna, subito informata dal marito di ciò che era accaduto, venne a trovarmi e mi disse che avevo torto ad affliggermi; che, se non potevo diventar lo sposo di Inesilla, potevo esserne il cortehho, cioè l’amante, e che se ne sarebbe occupata lei; ma, nello stesso tempo, dichiarò il suo amore per me e fece valere il sacrificio che faceva cedendomi alla sorella. Prestai fin troppo ascolto a dei discorsi che lusingavano la mia passione, ma Inesilla era così modesta da sembrarmi impossibile che si potesse mai indurla a corrispondere al mio amore.
«In questo periodo, mio padre decise di fare un viaggio a Madrid, con l’intenzione di brigarvi per ottenere il posto di corregidor Governatore di provincia (N.d.T.) di Cordova, e condusse con sé la moglie e la cognata. La sua assenza doveva durare soltanto due mesi, ma questo tempo mi parve interminabile, lontano com’ero da Inesilla.
«Quando i due mesi furono all’incirca trascorsi, ricevetti una lettera di mio padre, nella quale mi ordinava di andargli incontro e di aspettarlo alla Venta Quemada, all’imbocco della Sierra Morena. Qualche settimana prima non mi sarei deciso facilmente a passare per la Sierra Morena, ma avevano proprio allora impiccato i due fratelli di Zoto. La loro banda era stata dispersa, e le strade sembravano abbastanza sicure.
«Partii dunque da Cordova verso le dieci del mattino e andai a dormire a Anduhhar, da un oste fra i più chiacchieroni che ci fossero in Andalusia. Gli ordinai un pasto abbondante, ne mangiai una parte e serbai il resto per il viaggio.
«Il giorno dopo pranzai a Los Alcornoques con gli avanzi del giorno prima, e arrivai la sera stessa alla Venta Quemada. Non vi trovai mio padre, ma, poiché nella lettera mi ordinava di aspettarlo, mi ci adattai tanto più volentieri in quanto mi trovavo in una locanda spaziosa e comoda. L’albergatore che la teneva era allora un certo Gonzalez di Murcia, un buon uomo, benché un po’ fanfarone, che non mancò di promettermi un pasto degno di un grande di Spagna. Mentre si dava da fare a prepararlo, io andai a passeggiare sulle rive del Guadalquivir, e quando tornai alla locanda, vi trovai una cena che, in realtà, non era affatto cattiva.
«Finito di mangiare, dissi a Gonzalez di prepararmi il letto. Allora vidi che si turbava, e mi tenne alcuni discorsi che non avevano molto senso. Alla fine mi confessò che la locanda era posseduta dai fantasmi, che lui e la sua famiglia passavano tutte le notti in una piccola fattoria sulle rive del fiume, e aggiunse che, se anch’io avessi voluto dormire lì, mi avrebbe fatto preparare un letto vicino al suo.
«Questa proposta mi parve molto inopportuna; gli dissi che poteva andarsene a dormire dove voleva e che mi mandasse i miei servi. Gonzalez mi obbedì, poi si ritirò scotendo la testa e alzando le spalle.
«Un istante dopo arrivarono i miei domestici; anche loro avevano sentito parlare dei fantasmi e vollero convincermi a passare la notte alla fattoria. Accolsi i loro consigli un po’ brutalmente e ordinai di farmi il letto nella stessa stanza dove avevo mangiato. Mi obbedirono benché a malincuore e, quando il letto fu pronto, mi scongiurarono ancora, le lacrime agli occhi, di recarmi a dormire alla fattoria. Davvero spazientito dai loro ammonimenti, mi lasciai andare a qualche manifestazione che valse a metterli in fuga, e, poiché non avevo l’uso di farmi svestire dai miei servi, facilmente feci a meno di loro per andarmi a coricare: tuttavia erano stati più attenti di quanto non lo meritassero i miei modi nei loro riguardi. Avevano lasciato vicino al letto una candela accesa, un’altra di ricambio, due pistole e qualche volume la cui lettura poteva tenermi sveglio, ma la verità è che avevo perso il sonno.
«Trascorsi un paio d’ore un po’ a leggere, un po’ a rivoltarmi nel letto. Alla fine sentii il suono di una campana o di un orologio che batté mezzanotte. Ne fui sorpreso, non avendo sentito sonare le altre ore. Poco dopo la porta si aprì, e vidi entrare la mia matrigna: era in camicia da notte e teneva in mano un candeliere. Si avvicinò camminando sulla punta dei piedi, il dito sulla bocca, come per impormi il silenzio. Poi posò il candeliere sul mio comodino, si sedette sul letto, mi prese una mano, e mi parlò in questo modo: Mio caro Pacheco, ecco il momento in cui posso darvi i piaceri che vi avevo promesso. Siamo arrivati in questa bettola da un’ora. Vostro padre è andato a dormire alla fattoria, ma quando ho saputo che voi eravate qui ho ottenuto il permesso di passarvi la notte con mia sorella Inesilla. Essa vi aspetta, ed è pronta a non rifiutarvi niente; ma devo informarvi delle condizioni che ho poste alla vostra felicità. Voi amate Inesilla, e io amo voi. Non bisogna che, di noi tre, due siano felici a spese dell’altro. Esigo che un unico letto ci serva questa notte. Venite. La mia matrigna non mi lasciò il tempo di risponderle; mi prese per la mano e mi condusse di corridoio in corridoio, finché non fummo arrivati a una porta, dove si mise a guardare per il buco della serratura.
«Quando ebbe guardato abbastanza, mi disse: Va tutto bene, guardate voi stesso. Presi il suo posto, e vidi davvero l’incantevole Inesilla nel suo letto; ma com’era lontana dalla modestia che le avevo sempre vista! L’espressione degli occhi, il respiro turbato, il colorito vivace, l’atteggiamento, tutto in lei provava che era in attesa di un amante.
«Camilla, dopo avermi lasciato guardare bene, mi disse: Mio caro Pacheco, rimanete a questa porta, e quando sarà tempo, verrò ad avvertirvi.
«Dopo che fu entrata, mi rimisi al buco della serratura e vidi molte cose che ho difficoltà a raccontare. Prima Camilla si svestì, direi meticolosamente, poi, entrando in letto con sua sorella, le disse: Mia povera Inesilla, è proprio vero che vuoi un amante? Povera bambina, tu non sai il male che ti farà. Prima ti butterà a terra, ti schiaccerà, e poi ti pesterà, ti squarcerà. Quando Camilla credette di aver istruito abbastanza la sua allieva, venne ad aprirmi la porta, mi condusse al letto della sorella e si coricò con noi.
«Cosa posso dire di quella notte fatale? Diedi fondo a ogni delizia e a ogni crimine. A lungo combattei contro il sonno e la natura per prolungare i miei infernali piaceri. Finalmente mi addormentai, e mi svegliai il giorno dopo sotto la forca dei fratelli di Zoto, coricato fra i loro infami cadaveri.»
L’eremita, a questo punto, interruppe l’indemoniato e mi disse:
«Ebbene, figlio mio, che ve ne sembra? Non sareste stato atterrito di trovarvi coricato fra due cadaveri?»
Gli risposi:
«Padre mio, voi mi offendete. Un gentiluomo non deve mai avere paura, e ancor meno quando ha l’onore di essere capitano delle Guardie valloni.»
«Ma, figlio mio» riprese l’eremita «avete mai sentito dire che una simile avventura sia capitata a qualcuno?» Esitai un istante, poi dissi:
«Se questa avventura è capitata al signor Pacheco, può essere capitata anche ad altri. Giudicherò ancora meglio se vorrete ordinargli di continuare la storia.»
L’eremita si voltò dalla parte dell’indemoniato e gli disse: «Pacheco, Pacheco! Nel nome del tuo redentore, ti ordino di continuare la tua storia.»
Pacheco lanciò un urlo terribile e continuò così:
«Ero mezzo morto quando lasciai la forca. Mi trascinai senza saper dove. Finalmente, incontrai dei viaggiatori che ebbero pietà di me e che mi riportarono alla Venta Quemada. Lì trovai il locandiere e i miei servi, molto in pena per me. Domandai se mio padre avesse dormito alla fattoria. Mi risposero che non era venuto nessuno.
«Non potei risolvermi di restare più a lungo alla venta, e ripresi il cammino di Anduhhar. Non vi arrivai che dopo il tramonto. L’albergo era pieno, mi fecero un letto nella cucina e mi ci coricai, ma non potei dormire, non riuscendo a dimenticare gli orrori della notte precedente.
«Avevo lasciato una candela accesa sul camino della cucina. Tutt’a un tratto, si spense, e sentii improvvisamente come un brivido mortale gelarmi il sangue.
«Qualcuno mi tolse la coperta, poi sentii una vocina che diceva: Sono Camilla, la tua matrigna, ho freddo, mio piccolo cuore, fammi posto sotto la tua coperta. E un’altra voce: Io sono Inesilla. Lasciami entrare nel tuo letto. Ho freddo, ho freddo. Poi sentii una mano gelata afferrarmi sotto il mento. Radunai tutte le mie forze e dissi ad alta voce: Vattene, Satana!. Allora le vocine mi dissero: Perché ci scacci? Non sei tu il nostro piccolo marito? Abbiamo freddo. Faremo un po’ di fuoco. E subito dopo vidi davvero la fiamma nel focolare della cucina. Quando divenne più chiara, non scorsi Inesilla e Camilla, ma i due fratelli di Zoto appesi nel camino.
«Quella visione mi mise fuori di me. Uscii dal letto. Saltai dalla finestra e cominciai a correre per la campagna. Per un momento potei illudermi di essere scampato a tanti orrori, ma, quando mi voltai, mi accorsi che ero inseguito dai due impiccati. Ricominciai a correre, e vidi che gli impiccati erano rimasti indietro. Ma la mia gioia non fu di lunga durata. Quegli esseri detestabili si misero a roteare su se stessi e in un istante furono su di me. Corsi ancora, finché le forze non mi abbandonarono.
«Allora sentii che uno degli impiccati mi afferrava per la caviglia del piede sinistro. Volli svincolarmi, ma l’altro mi tagliò la strada. Mi si parò davanti strabuzzando gli occhi e tirando fuori una lingua rossa come il ferro rovente. Chiesi grazia. Fu invano. Con una mano mi prese alla gola e con l’altra mi strappò l’occhio che mi manca. Poi entrò nell’orbita con la lingua rovente. Mi lambì il cervello, facendomi ruggire dal dolore.
«Allora l’altro impiccato, che mi aveva afferrato la gamba sinistra, volle anche lui giocar d’artigli. Prima cominciò a solleticarmi la pianta del piede che teneva stretta. Poi, quel mostro, ne strappò la pelle, ne separò tutti i nervi, li mise a nudo, e volle sonarvi come su uno strumento musicale; ma, poiché non davo un suono che potesse fargli piacere, affondò il suo sperone nel mio ginocchio, strinse i tendini e cominciò a torcerli, come si fa per accordare un’arpa. Infine si mise a sonare sulla mia gamba, di cui aveva fatto un salterio. Udii il suo riso diabolico. Agli spaventosi mugolìi che il dolore mi strappava, fecero coro le urla infernali. Ma quando sentii lo stridore dei denti dei dannati, mi sembrò che ciascuna delle mie fibre fosse stritolata tra le loro mascelle. Finalmente persi conoscenza.
«Il giorno dopo, alcuni pastori mi trovarono nella campagna e mi portarono a questo eremo. Ho confessato i miei peccati, e ai piedi della croce ho trovato qualche sollievo ai miei mali.»
E qui Pacheco lanciò un terribile urlo e tacque.
Allora prese la parola l’eremita e mi disse:
«Caro giovane, vedete la potenza di Satana, pregate e piangete. Ma è tardi. Bisogna separarci. Non vi propongo di dormire nella mia cella, perché Pacheco, durante la notte, fa degli urli che potrebbero darvi fastidio. Andate a dormire nella cappella. Sarete sotto la protezione della croce, che trionfa sui demoni.»
Risposi all’eremita che avrei dormito dove voleva. Portammo nella cappella un lettino di cinghie. Mi coricai, e l’eremita mi augurò la buona notte.
Quando fui solo, il racconto di Pacheco mi tornò alla mente. Vi trovai molte affinità con le mie proprie avventure, e ci pensavo ancora quando sentii sonare la mezzanotte. Non sapevo se fosse l’eremita che sonava, o se avessi ancora a che fare con i fantasmi. Sentii raspare alla porta. Vi andai e chiesi:
«Chi va là?»
Una vocina mi rispose:
«Abbiamo freddo, apriteci, siamo le vostre mogliettine.» «Già, maledetti impiccati» risposi loro «tornate alla vostra forca e lasciatemi dormire.»
Allora la vocina mi disse:
«Ti beffi di noi perché sei dentro una cappella, ma vieni un po’ fuori.»
«Ci vengo subito» risposi loro.
Andai a cercare la mia spada per uscire, ma trovai la porta chiusa. Lo dissi ai fantasmi, ma non risposero. Mi coricai e dormii fino al mattino.


Crediti
 Italo Calvino
 Racconti fantastici dell'Ottocento
  Volume primo
  Il fantastico visionario
 Pinterest • Joan Miró  • 




Quotes per Italo Calvino

Ogni scelta ha un rovescio cioè una rinuncia, e così non c'è differenza fra l'atto di scegliere e quello di rinunciare.

…chi siamo noi, chi è ciascuno di noi se non una combinatoria d'esperienze, d'informazioni, di letture, d'immaginazioni? Ogni vita è un'enciclopedia, una biblioteca, un inventario d'oggetti, un campionario di stili, dove tutto può essere continuamente rimescolato e riordinato in tutti i modi possibili.

Che pena. Sperare, intendo. È la pena di chi non sa rinunciare.

L'amavo, insomma. Ed ero infelice. Ma lei come avrebbe mai potuto capire questa mia infelicità? Ci sono quelli che si condannano al grigiore della vita più mediocre perché hanno avuto un dolore, una sfortuna; ma ci sono anche quelli che lo fanno perché hanno avuto più fortuna di quella che si sentivano di reggere.

Puoi riprendere il volo quando vuoi, ma arriverai a un’altra Trude, eguale punto per punto. Il mondo è ricoperto da un’unica Trude, che non comincia e non finisce, cambia solo il nome all’aeroporto.  Le città invisibili