Non c'è strada troppo lunga per chi cammina lentamente e senza fretta; non ci sono mete troppo lontane per chi si prepara ad esse con la pazienza.Jean de La Bruyère
l filosofo deve possedere una buona dose di cattiva volontà per non giocare correttamente il gioco della verità e dell'errore
Entro le categorie, si sbaglia; al difuori, al di sotto, al di qua di esse, si è bestie. […] Ciò consente di scoprire un uso poco apparente delle categorie; facendo sorgere uno spazio del vero e del falso, dando posto al libero supplemento dell’errore, esse respingono silenziosamente la bestialità. A voce alta, le categorie ci dicono come conoscere, e ci avvertono solennemente sulle possibilità d’ingannarsi; ma a bassa voce, esse vi garantiscono che siete intelligenti, e costituiscono Va priori della bestialità esclusa. È dunque pericoloso liberarsi dalle categorie; non appena si sfugge loro si affronta il magma della bestialità e si rischia una volta aboliti questi princìpi di distribuzione di veder salire tutt’intorno a sé, non la meravigliosa molteplicità delle differenze, ma l’equivalente, il confuso, il «tutto torna allo stesso», il livellamento uniforme e il termodinamismo di tutti gli sforzi falliti. Pensare nella forma delle categorie, vuol dire conoscere il vero per distinguerlo dal falso; pensare con un pensiero a-categorico, far fronte alla nera bestialità, è, per il tempo di un lampo, distinguersene. La bestialità si contempla: vi si immerge lo sguardo, ci si lascia affascinare, essa vi trasporta con dolcezza, la si imita abbandonandovisi; sulla sua fluidità senza forma, cui ci si appoggia; si spia il primo soprassalto dell’impercettibile differenza, e, con lo sguardo vuoto, si spia, senza febbre, il ritorno della luce. All’errore si dice no, e si cancella; si dice sì alla bestialità, la si vede, la si ripete e, pian piano, s’invoca l’immersione totale. Warhol è grande con le sue scatole di conserva, i suoi stupidi casi e le sue serie di sorrisi pubblicitari: equivalenza orale e nutritiva di labbra dischiuse, di denti, di salse di pomodoro, di igiene da epidermide; equivalenza di una morte nel fondo di una vettura sventrata, al termine di un filo telefonico sull’alto di un palo, tra le braccia scintillanti e bluastre della sedia elettrica. «Una cosa vale l’altra», dice la bestialità, sprofondando in sé stessa, e prolungando all’infinito ciò che essa è attraverso ciò che essa dice di sé; «Qui o in un altro posto, sempre la stessa cosa; che importa che variino alcuni colori e che le luci siano più o meno grandi; come è bestia la vita, la donna, la morte! Come è bestia la bestialità!». Ma a contemplare bene in faccia questa monotonia senza limiti, ciò che d’improvviso si illumina, è la molteplicità stessa—senza niente al centro, né in cima, né al di là — crepitio luminoso che corre ancor più rapido dello sguardo e volta a volta illumina queste etichette mobili, queste istantanee imprigionate che ormai, per sempre, senza nulla formulare, si fanno segno: d’un tratto, sul fondo della vecchia inerzia equivalente, la zebratura dell’avvenimento squarcia l’oscurità, e il fantasma eterno si dice di questa scatola, di questo volto singolare, senza spessore. L’intelligenza non risponde alla bestialità: è la bestialità già vinta, l’arte categoriale di evitare l’errore. Lo studioso è intelligente. Ma è il pensiero che s’affronta alla bestialità, ed è la filosofia che la guarda. A lungo, sono faccia a faccia, col suo sguardo immerso in questo cranio senza candela. È la sua propria testa di morto, la sua tentazione, il suo desiderio forse, il suo teatro catatonico. Al limite, pensare sarebbe contemplare intensamente, da molto vicino, e quasi fino a perdervisi, la bestialità; e la stanchezza, l’immobilità, una grande fatica, un certo cocciuto mutismo, l’inerzia formano l’altra faccia del pensiero – o meglio il suo accompagnamento, l’esercizio quotidiano e ingrato che lo prepara e che subito esso dissolve. Il filosofo deve possedere una buona dose di cattiva volontà per non giocare correttamente il gioco della verità e dell’errore: questo mal volere, che si attua nel paradosso, gli consente di sfuggire alle categorie. Ma egli deve essere inoltre di «umore cattivo» tanto quanto basta per restare di fronte alla bestialità, per contemplarla senza un gesto, sino alla stupefazione, per avvicinarsi ben bene ad essa e mimarla, per lasciarla montare lentamente in sé (è forse questo che si traduce eufemisticamente: essere assorbito nei propri pensieri), e attendere, al termine mai fissato di questa preparazione accurata, lo choc della differenza: la catatonia muove il teatro del pensiero, una volta che il paradosso abbia rovesciato il quadro dalla rappresentazione.

Crediti
 Gilles Deleuze
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Quotes per Gilles Deleuze

L'opera di Proust non è rivolta verso il passato e le scoperte della memoria, ma verso il futuro e verso i progressi dell'apprendimento. Quello che importa è che il protagonista non sapeva all'inizio certe cose, ma le apprende progressivamente, e riceva infine un'estrema rivelazione. Prova dunque necessariamente delle delusioni: egli credeva, si faceva delle illusioni, il mondo vacilla nel corso dell'apprendimento.  Marcel Proust e i segni

Il corpo si manifesta soltanto quando viene meno il sostegno delle ossa, quando la carne non ricopre più le ossa, quando carne e ossa esistono l'una per le altre, ciascuna però per conto suo… Come in Kafka, in Bacon la colonna vertebrale non è altro che la spada che un carnefice ha fatto scivolare sotto la pelle del corpo di un innocente che dorme.  Logica della sensazione

Qual è il rapporto tra l'opera d'arte e la comunicazione? Nessuno, nessuno. L'opera d'arte non è uno strumento di comunicazione. L'opera d'arte non ha nulla a che fare con la comunicazione. In compenso c'è un'affinità fondamentale tra l'opera d'arte e l'atto di resistenza. Allora lì sì, che ha qualcosa a che fare con l'informazione e con la comunicazione, a titolo di atto di resistenza.

Siamo diventati simulacri, abbiamo perso l'esistenza morale per entrare in quella estetica.

È nel punto mobile e preciso, in cui tutti gli eventi si riuniscono così in uno solo, che si opera la trasmutazione: il punto in cui la morte si rivolge contro la morte, in cui il morire è come la destituzione della morte, in cui l'impersonalità del morire non segna più soltanto il momento in cui io mi perdo fuori di me, ma il momento in cui la morte si perde in sé stessa, e la figura che la vita più singolare assume per sostituirsi a me.