La chiacchiera come resistenza

Molte persone passano gran parte della loro vita sociale a parlare di cose insignificanti o, peggio, a sentenziare intorno a cose estremamente serie, ma senza alcuna serietà: così, solo per sentire il suono della propria voce e per essere confortate dal consenso, almeno apparente, altrui; non che esse lo domandino; esso è dato per acquisito già per il solo fatto di condividere la stessa pigrizia intellettuale, la stessa noia esistenziale che spinge il chiacchierone a cercare la compagnia di individui altrettanto superficiali di lui. E, quando una cosa è detta, o approvata, da molti, incomincia ad acquistare un caratteristico sentore di verità; un po’ come accade con i mass-media: una cosa detta in televisione, per quanto destituita di ogni fondamento e perfino di ogni senso logico, è pur sempre una cosa autorevole: per lo meno agli occhi dell’uomo-massa, del telespettatore abulico e passivo, che a malapena distingue la pubblicità dal programma vero e proprio (non che la cosa sia proprio facilissima: quanta pubblicità camuffata ci viene ammannita nel corso del telegiornale, tanto per fare un esempio tra i più comuni…). Non è cosa difficile rendersi conto che, dove più i rapporti sociali si fanno inautentici, lì la chiacchiera imperversa; e che tanto più volentieri si parla di tutto un po’, quanto più si fa in modo di eludere l’essenziale…

Robert Doisnau ⋯

Il testo di Lucrezio insiste sul fatto che il cianciare a vuoto della gente non regge al contatto con la realtà: si mette alla prova l’uomo in dubiis periclis e adversis in rebus, lì si rivelerà qui sit. La tematica della chiacchiera, del discorso che non dice le cose ma che in fin dei conti si risolve in parole prive di referenzialità, è importante nel pensiero di Martin Heidegger, la cui opera Essere e tempo dedica una importante analisi alla chiacchiera, uno degli atteggiamenti che caratterizzano l’esistenza inautentica.

Più che di comprendere l'ente di cui si discorre [scrive Heidegger in «Essere e tempo»], ci si preoccupa di ascoltare ciò che il discorso dice come tale. L'oggetto della comprensione diviene il discorso, il sopra-che-cosa lo è solo approssimativamente e superficialmente. Si intendono le medesime cose, perché ciò che è detto è compreso da tutti nella medesima medietà.Guido Milanese

Il quadro delineato da Lucrezio pone in luce il valore di rassicurazione reciproca di quei vuoti discorsi sull’anima e sulla morte: la gente chiacchiera su queste cose terribili, e dichiara di non avere bisogno di filosofia – un auto-riconoscimento di una condizione di sanità che non ha bisogno di cure. L’interessante è appunto il valore illusoriamente auto-fondante del linguaggio adoperato in questa maniera: un’esistenza radicalmente falsa, che si costruisce un proprio mondo, fasullo ma rassicurante, fino allo scontro con la realtà (eripitur persona…). Tornando ad Heidegger:

La comunicazione non partecipa il rapporto originario dell’essere dell’ente di cui si discorre; l’essere-assieme si realizza nel discorrere-assieme e nel prendersi cura di ciò che il discorso dice. Ciò che conta è che si discorra. L’esser-stato-detto, l’enunciato, la parola, si fanno garanti dell’esattezza e della conformità alle cose del discorso e della sua comprensione. E poiché il discorso ha perso, o non ha mai raggiunto, il rapporto originario con l’ente di cui si discorre, ciò che esso partecipa non è l’appropriazione originaria di questo ente, ma la diffusione e la ripetizione del discorso. Ciò-che-è-stato-detto si diffonde in cerchie sempre più larghe e ne trae autorità. Le cose stanno così perché così si dice. La chiacchiera si costituisce in questa diffusione e in questa ripetizione del discorso nelle quali la certezza iniziale in fatto di fondamento si aggrava fino a diventare infondatezza.

In altre parole, per Heidegger la gente non parla delle cose, ma parla delle proprie parole intorno alle cose. Le cose sono solamente un pretesto; le parole che ne parlano non sfiorano nemmeno la loro essenza, restano staccate da esse e chiuse nella loro autoreferenzialità. L’importate non è dire qualcosa che permetta di meglio comprendere la realtà, ma dire e basta, semplicemente: dire per sentirsi rassicurati dalla propria voce. Per Heidegger, è proprio la consapevolezza della morte che, attraverso l’angoscia, spinge l’uomo ad una vita più autentica: non già, come in Kierkgaard e, in genere, nel cristianesimo, nella prospettiva di una vita oltre la morte, ma proprio nella prospettiva che la morte sia la fine di tutto. Da Platone (e da Dante) egli riprende l’idea che la vita del saggio sia un prepararsi a morire; ma ciò in un’ottica puramente laica e immanente, al di fuori di qualunque soluzione religiosa. Heidegger fa notare che la parola autentico racchiude la radice αὐϑέντης che significa se stesso: dunque una cosa è autentica quando è conforme a se stessa, quando realizza la propria natura: in breve: quando è originaria. La vita della maggior parte delle persone, però, non è originaria, e ciò appare nella quotidianità media, nella vita di tutti i giorni: dominata, appunto, dalla chiacchiera. Per Heidegger, l’uomo è un essere-nel-mondo: il mondo (kantianamente; ma, si direbbe, anche seguendo le orme di Berkeley) non è anteriore all’uomo: ossia, per l’uomo esiste solo quel mondo nel quale egli è situato. Che poi esista un altro mondo, al di fuori di noi, questo per il filosofo tedesco ha poca importanza, perché non è nulla per noi né potremo mai conoscerlo, proprio come il noumeno di Kant.

Robert Doisnau ⋯ È per questo che Heidegger scrive essere-nel-mondo con i trattini: per evidenziare che il mondo di cui si parla non è il mondo in se stesso, il mondo oggettivo, ma il mondo nel quale noi ci troviamo, inseparabilmente uniti ad esso (ed esso a noi). Diversamente da Fichte e da Hegel, però, Heidegger non pensa che sia la coscienza a produrre il mondo in sé; ma che il mondo sia l’insieme delle cose da noi utilizzabili. Da ciò scaturisce il concetto di cura: se il mondo è l’insieme delle cose che noi possiamo utilizzare, allora dobbiamo anche prendercene cura, vale a dire dobbiamo prestarvi attenzione e non limitarci a discorrere di esse, come avviene, appunto, nella categoria della chiacchiera. Diversamente da Aristotele, che pone la facoltà conoscitiva alla base della natura umana, Heidegger ritiene che il conoscere sia uno dei modi in cui si possono utilizzare le cose, ma sempre nella prospettiva di una vita autentica. Se si scivola, invece, nella vita inautentica, allora si verifica il fenomeno della deiezione: ci si trasforma in cose, regredendo al livello di ciò che è chiuso in se stesso; mentre l’esser-ci dell’uomo (ossia il suo essere nel mondo) è sempre affacciato sul futuro. Pertanto, l’uomo che vive in maniera in autentica rinuncia alla propria progettualità e, come il Don Giovanni di Kierkegaard, rinuncia a pensare la propria vita come progetto aperto sul futuro, e si rinchiude in una sorta di morte precoce dell’anima. Questa vita inautentica è caratterizzata dal si riflessivo, tipico di chi non vive la propria vita conforme a se stesso, ma conforme alle cose e alla chiacchiera: per esempio, si dice che le cose stiano in un certo modo; si crede che, si pensa che; e così via. Lucrezio condivide con Heidegger l’idea che il discorrere superficialmente delle cose sia una forma di auto-rassicurazione nei confronti dell’idea della morte; un eludere, dunque, il nodo fondamentale della nostra vita. Ma, diversamente da Heidegger, l’epicureo Lucrezio mette l’evento della morte fra parentesi: fino a quando noi ci siamo, la morte non c’è; viceversa, quando c’è la morte, non ci siamo più noi: essa, pertanto, è come se fosse nulla per quel che ci riguarda. Entrambi i pensatori, tuttavia – Heidegger e Lucrezio -, ci ricordano che vi sono due modi di morire: il morire risolutivo della morte ed il morire lento, sordo, grigio, della chiacchiera insulsa e della vita inautentica, cioè non originaria, non conforme a se stessa.

Ma come deve essere la vita umana, per essere originaria e conforme a se stessa?

Robert Doisnau ⋯ Per essere originaria, a nostro avviso, la vita umana deve conformarsi alla propria natura: vale a dire che deve mirare a realizzare il progetto per il quale essa è stata tratta all’esistenza dall’Essere, è stata chiamata, è stata invitata e le sono stati dati gli strumenti per mezzo dei quali essa può divenire conforme a se stessa, cioè autentica. Nella prospettiva materialista e riduzionista della società contemporanea, una persona si realizza quando segue il proprio estro e percorre la propria strada, senza lasciarsi condizionare minimamente dai fattori esterni.

In una prospettiva spiritualista ed olistica, invece – quale è quella cui noi ci riferiamo – riesce a realizzare il senso della propria vita colui che mette in armonia le esigenze della auto-realizzazione con quelle del mondo in cui è situato, prendendosi cura degli enti ed aprendosi, con stupore e gratitudine infiniti, alla bellezza del disegno cosmico cui è stato chiamato a partecipare. In questa “serietà” della vita non c’è posto per la chiacchiera, evidentemente. Ogni parola è una parola sacra, parte del poema cosmico della vita universale, Robert Doisnau ⋯ e va pronunciata con rispetto, devozione e amore. Altrimenti, è meglio il silenzio: ma il silenzio dell’ascolto, della lode e del ringraziamento; non certo il silenzio dell’indifferenza, della noia o della cupa rassegnazione.