La classe dirigente di un paese e la nostalgia di una città
Non c’erano, di ricchi, nel paese, che il capitalista proprietario della fabbrica, quasi sempre residente a Milano, e un conte, padrone di quasi tutte le terre, il quale faceva rare apparizioni con la moglie, un grosso idolo carico di gioielli, al cui passaggio donne e uomini si curvavano fino al suolo. Una decina d’avvocati, annidati in un circolo di civili, suscitavano e imbrogliavano lunghe liti fra i piccoli proprietari dissanguati dalle tasse. Se si aggiungono alcuni preti e mezza dozzina di carabinieri, ecco tutta la classe dirigente del luogo. Mio padre non solo non aveva dato segno di accorgersi di loro, ma aveva respinto con impazienza un banchetto che avevano voluto offrirgli, insieme alla presidenza di non so quali istituzioni antiche e pompose e senza fondi. La cosa era inaudita, come inaudito e quasi offensivo era il fatto ch’egli rinviasse sistematicamente quanti gli portavano regali. Quante volte delle donnicciole uscivan da casa nostra stupefatte e disperate, perché il babbo non aveva accettato i polli coi quali esse volevano intenerire il suo cuore in favore dei loro figliuoli!
Ma nella sua estrema ignoranza e indolenza il popolo era la parte migliore del paese, non mancava di una certa bontà istintiva; rimproverava soltanto al direttore, come mio padre veniva chiamato, il rigore inaudito verso i dipendenti, esagerato di bocca in bocca.
Nei primi tempi il babbo aveva riso di questa antipatia diffusa. Poi, pian piano, aggiungendovi la conoscenza più esatta dei lavoratori del luogo, un rancore amaro principiò ad invaderlo. Sopra tutto l’ipocrisia dominante l’irritava. L’isolamento favoriva in lui la critica spietata, senza misura: il confronto fra quella razza quasi orientale che gli si premeva intorno sordidamente, e i suoi compaesani, si esagerava. Reagiva così, forse senza addarsene, al pericolo di acclimatarsi o di veder acclimatarsi i suoi figliuoli? Ma perdeva, anche inconsapevolmente, l’equilibrio del giudizio, esagerava la sua superiorità, il suo sprezzo fino alla provocazione. Avrebbe voluto adoperar nella fabbrica soltanto operai piemontesi, fondare una vera colonia, ma vi si opponeva il proprietario per economia e per prudenza. La maestranza nondimeno era composta tutta di nostri conterranei che colle famiglie costituivano un gruppo isolato e guardato dagli indigeni con diffidenza.
Io mi esaltavo in cuore misurando la distanza fra noi e tutti quegli altri. Quando rientravo a casa dalla fabbrica, col berretto di lana rossa sui miei capelli corti e coll’andatura rapida di persona affaccendata, udivo dei sussurri dietro di me: in faccia al caffè i soliti scioperati mi guardavano sorridendo; sentivo che da una parte destavo la loro curiosità, dall’altra offendevo la loro abitudine di veder le fanciulle passar timide, guardinghe e lusingate dai loro sguardi. Il paese mi veniva in uggia, e se non l’aborrivo era unicamente a causa delle bellezze naturali che non mi stancavo di ammirare. Una strana nostalgia, strana in me che non avevo sentito alcun dolore lasciando Milano, mi s’era venuta insinuando nell’anima silenziosamente, non esternandosi che nelle lettere alle amiche. Il mio settentrione, attraverso le nubi del ricordo, m’appariva ora desiderabile, pieno d’incanti: la città sopra tutto, l’immensa città col suo formicolìo umano, con la sua esistenza vibrante, la città che rivedevo talora in certi aspetti più tipici, che mi risorgeva all’improvviso, in scorci, per cui avevo la momentanea illusione d’essere ancora là, piccola, a mano del babbo, sotto la nebbia o nel sole polveroso; la città della mia fanciullezza già circonfusa d’un rimpianto senza nome mi dava a volte nel ricordo brividi di passione…

Crediti
 Sibilla Aleramo
 Una donna
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