In quel 1862, le condizioni della Sicilia dovevano apparir [ai nobili siciliani] in tutto uguali a quelle del 1849: tali cioè che sarebbe bastato lo sbarco di qualche reggimento borbonico in un qualsiasi punto della costa a far sì che tutta la Sicilia violentemente insorgesse contro i piemontesi. Nel popolo, nella piccola «burgisia» agraria (ogni volta che per le cose siciliane si deve parlare di borghesia è opportuno o lasciare la parola in dialetto o farla seguire da un aggettivo; per esempio: borghesia mafiosa), la delusione era grande: le tasse; la leva militare obbligatoria alla quale gli abbienti sfuggivano pagando e i poveri dovevano sottostare da tre a sette anni; l’esproprio dei beni ecclesiastici che andava a tutto vantaggio della grande «burgisia» fondiaria, tanto più rapace e dura dell’aristocrazia feudataria. C’era poi, gravissimo, il problema dell’ordine pubblico: e pare ci fosse davvero differenza tra come, dal ‘48 al ‘60, Maniscalco aveva diretto la polizia e le incertezze, gli avventati rigori e le non meno avventate debolezze, gli sciocchi machiavellismi con cui la dirigevano i questori sabaudi. Al modo del Bolis «prelodato», per dirla col linguaggio del Giornale Officiale. Insomma, la restaurazione borbonica doveva sembrare non solo possibile, ma sicura e vicina. Comitati borbonici si costituivano spontaneamente – e, si capisce, segretamente – in ogni parte dell’isola: e crediamo se ne meravigliassero lo stesso Francesco e il suo fedele ministro Ulloa, che sulla devozione dei siciliani non contavano per nulla.
Era il momento, per i siciliani che avessero fiuto, di preparare i loro titoli di fedeltà a Francesco Secondo: ma cautamente, ma accortamente; e insomma facendo quel doppio gioco che abbiamo visto andar bene, tra fascismo e antifascismo, giusto ottant’anni dopo. E di fiuto la classe aristocratica ne aveva, e affinato da secoli.
La delusione era grande
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