Qual era dunque il segreto che mi sussurrava Dostoevskij nei Fratelli Karamazov e nelle sue altre grandi opere? Era forse quel suo dirmi in forma comprensibile che avrei provato sempre il bisogno di un Dio, o di una fede alta, e allo stesso tempo dimostrarci che non saremo mai capaci di credere in qualcosa fino in fondo? O l’accettazione dell’idea che dentro di noi vive un demone che agisce contro le nostre convinzioni e i nostri pensieri più intimi? Oppure che, come credevo all’epoca, la felicità nasce non solo dalle passioni più intense e radicate, dai legami più forti e dai pensieri più profondi, ma anche dall’umiltà che è l’esatto opposto di tali ostentati concetti? O intendere che l’uomo è una creatura che oscilla – con molta più foga e indecisione di quanto allora non credessi – tra poli fondamentali come la speranza e la disperazione, l’amore e la ripulsa, il sogno e la realtà? O il convincersi che l’uomo – giusta la sua dimostrazione a proposito del vecchio Karamazov – persino quando piange non è del tutto sincero, e sta recitando la scena del pianto? A scuotere e turbare non è l’offrire da parte di Dostoevskij quelle verità sulla vita, come fossero idee, bensì la sua capacità di dimostrarle attraverso protagonisti e personaggi a tre dimensioni, che danno al lettore l’impressione di essere reali, in carne ed ossa.
La felicità nasce dall’umiltà
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