La follia per eccellenza
La follia di Hölderlin non sorprende il sapere medico. Si può nominarla. I grandi tratti del suo carattere, chiuso, poco socievole, suscettibile, i disturbi del suo umore che gli fanno temere, fin dall’adolescenza, di divenire insensibile (Sono intorpidito, sono di pietra), l’irruzione del male che si manifesta innanzitutto con una certa fatica della sensibilità, poi con una leggera instabilità del comportamento, fino al momento in cui, i disturbi diventati crisi, la vita del mondo diventa impossibile, senza che l’attività intellettuale sia tuttavia spezzata (Hölderlin traduce Sofocle in versi che Schiller e Goethe trovano ridicoli, ma che la posterità giudica ammirevoli; scrive i suoi inni grandiosi), infine, quando la follia lo mette definitivamente da parte, la sua vita elementare, per lo più innocente e decorosa, sebbene estranea al mondo, la leggera affettazione delle sue maniere, il rifiuto che egli oppone agli estranei, il flusso delle sue parole senza seguito e pure tutto quello che ci sorprende come una sopravvivenza prodigiosa: il fatto che in certi momenti la sua memoria, solitamente così oscurata, appaia intatta o il fatto che egli rimanga capace di osservazioni profonde e di parole vere, ma soprattutto la sua costante attività poetica, questa mano felice che non smette di scrivere e che scrive talvolta i poemi più toccanti, e questo fino alla fine, durante i quarant’anni di una vita murata e incapace, tutte queste meraviglie appartengono al fenomeno normale della schizofrenia.

Crediti
 Maurice Blanchot
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Quotes per Maurice Blanchot

Con la domanda ci si dà la cosa e nello stesso tempo il vuoto che ci permette di non averla ancora o di averla come desiderio. La domanda è il desiderio del pensiero.

Ci interroghiamo sul nostro tempo. Questa interrogazione non si esercita in momenti privilegiati, ma procede senza soste, fa essa stessa parte del tempo, lo incalza nel modo assillante che è proprio del tempo. In un certo senso non è una interrogazione ma una specie di fuga. Sul rumore di fondo costituito dal sapere del corso del mondo, con cui esso precede, accompagna e segue in noi ogni sapere, durante la veglia e il sonno, proiettiamo delle frasi che si scandiscono in domande. Un ronzio di domande. Quanto valgono? Che dicono? Anche queste sono domande.

Orfeo ci ricorda che il parlare poeticamente come lo sparire appartengono alla profondità di uno stesso movimento: chi canta deve mettersi interamente in gioco, e, alla fine, perire, poiché egli parla solo quando l'approssimazione anticipata alla morte, la separazione anticipata, l'addio formulato in anticipo, cancellano in lui la falsa certezza d'essere, dissipano ogni sicurezza protettrice, lo consegnano ad una illimitata incertezza.

Mai la filosofia era parsa tanto fragile, più preziosa e più appassionante come nel momento in cui uno sbadiglio faceva svanire nella bocca di Bergson l'esistenza di Dio.

L'opera non è né compiuta né incompiuta: essa è… la solitudine dell'opera ha come primo sfondo quest'assenza di esigenza che non permette mai di dirla né compiuta né incompiuta. L'opera è solitaria: ciò non significa che essa rimanga incomunicabile, che il lettore le venga a mancare.