La follia di Hölderlin non sorprende il sapere medico. Si può nominarla. I grandi tratti del suo carattere, chiuso, poco socievole, suscettibile, i disturbi del suo umore che gli fanno temere, fin dall’adolescenza, di divenire insensibile (Sono intorpidito, sono di pietra), l’irruzione del male che si manifesta innanzitutto con una certa fatica della sensibilità, poi con una leggera instabilità del comportamento, fino al momento in cui, i disturbi diventati crisi, la vita del mondo diventa impossibile, senza che l’attività intellettuale sia tuttavia spezzata (Hölderlin traduce Sofocle in versi che Schiller e Goethe trovano ridicoli, ma che la posterità giudica ammirevoli; scrive i suoi inni grandiosi), infine, quando la follia lo mette definitivamente da parte, la sua vita elementare, per lo più innocente e decorosa, sebbene estranea al mondo, la leggera affettazione delle sue maniere, il rifiuto che egli oppone agli estranei, il flusso delle sue parole senza seguito e pure tutto quello che ci sorprende come una sopravvivenza prodigiosa: il fatto che in certi momenti la sua memoria, solitamente così oscurata, appaia intatta o il fatto che egli rimanga capace di osservazioni profonde e di parole vere, ma soprattutto la sua costante attività poetica, questa mano felice che non smette di scrivere e che scrive talvolta i poemi più toccanti, e questo fino alla fine, durante i quarant’anni di una vita murata e incapace, tutte queste meraviglie appartengono al fenomeno normale della schizofrenia.
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