Se i timori ottocenteschi evocati dal Frankenstein riguardavano il segreto della vita, annidato nel laboratorio del chimico-biologo, il Novecento scopre, collocata nell’intimo della materia, la grande morte, e una natura che si rivela, come ha scritto il filosofo Maurice Merleau-Ponty, esplosiva. La tecnica accelera, si fa sempre più pervasiva, impara ad adattare le vele al vento, a sfruttare la natura ove non possa reprimerla; impara a piegarla al proprio capriccio, fino al giorno in cui il vento è la scissione dell’atomo e la vela la bomba a idrogeno. Ma possiamo considerare la storia della tecnica come un processo di sedimentazione continua dei saperi, o non dobbiamo forse immaginarla come un prodursi attraverso rotture e salti, in una discontinuità che si riflette nella incommensurabilità di tecniche tanto diverse, dagli utensili preistorici ai rigassificatori oggi in funzione? Robert R. Wilson, uno dei fisici del Progetto Manhattan, ebbe a dire della bomba: «Abbiamo creato Frankenstein e ora dobbiamo imparare a vivere con il mostro nel nostro villaggio». Se ci chiediamo dov’è oggi Prometeo?, non possiamo non pensare all’orrore di Hiroshima e Nagasaki come a una pietra miliare della sua vicenda, una sorta di nuovo peccato originale, con cui l’umanità dovrà perennemente fare i conti.
La grande morte nell’intimo della materia
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