La morte, per alcune filosofie, non comporta nessun pericolo di un reale annientamento, ma è semplicemente un passaggio, carico più di promesse che di rinunce. La contrapposizione dell’«aldilà
» all’«aldiquà
», di una realtà in cui la vita continua a una realtà in cui essa finisce, dovrebbe costituire la mossa vincente della filosofia, nel suo sforzo di negazione della morte.
E tuttavia, nella realizzazione di questo progetto, la filosofia si imbatte nella pervicace resistenza dell’uomo, il quale non vorrebbe affatto sottrarsi alle presunte catene della vita terrena, e anzi vorrebbe rimanere – vorrebbe vivere.
A nulla vale, dunque, l’esaltazione della morte, come occasione per disimpegnarsi dalle angustie della vita.
La raccomandazione filosofica, se coerentemente perseguita, dovrebbe infine tradursi nella pratica del suicidio, vale a dire in qualcosa che nulla ha a che vedere con la morte naturale, perché procede in una direzione opposta rispetto alla natura. Emerge allora, da questa frontale denuncia dell’inganno perpetrato dalla filosofia, culminante con l’equazione posta dall’idealismo fra la morte e il nulla, quale dovrebbe invece essere l’atteggiamento dell’uomo di fronte alla morte.
Comprendere che «la morte non è ciò che pare essere, non è nulla, bensì un inesorabile, ineliminabile qualcosa. Anche attraverso la nebbia di cui la filosofia la circonda risuona in tutta la sua forza il suo aspro appello, la filosofia voleva inghiottirla e farla scomparire nella notte del nulla, ma non ha saputo spezzare il suo aculeo velenoso».
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