L’espressione avere un passato , che lascia supporre un modo di possesso in cui il possidente potrebbe essere passivo, e non stride finché è applicata alla materia, deve essere sostituita da quella essere il proprio passato. Non vi è passato che per un presente non può esistere senza essere laggiù, dietro di sé, il proprio passato, cioè: hanno un passato solo gli esseri che sono tali, da rinchiudere nel proprio essere, il problema del loro essere passato, da dover essere il loro passato. Solo per la realtà umana l’esistenza di un passato è indiscutibile, perché è stato stabilito che deve essere ciò che è. È con il per-sé che il passato arriva nel mondo, perché il suo Io sono è sotto forma di un Io mi sono. Come il presente può essere il passato? Il nodo della questione sta nel termine era che, servendo da intermediario tra il presente e il passato, non è né del tutto presente, né del tutto passato. Non può essere infatti né l’uno né l’altro, perché in questo caso, sarebbe racchiuso nell’interno del tempo che denoterebbe il suo essere. Il termine era indica dunque il salto ontologico del presente nel passato e rappresenta una sintesi originale di questi due modi di temporalità. Che cosa deve intendersi per questa sintesi? Si comprende anzitutto che il termine era è un modo di essere. In questo senso io sono il mio passato. Non l’ho, lo sono: ciò che mi si dice relativamente a un atto che ho compiuto ieri, un umore che ho avuto, non mi lascia indifferente: ne sono ferito o lusingato, mi offendo o lascio dire, me ne sento colpito fin nell’intimo. Non mi disinteresso del mio passato. Senza dubbio, alla lunga, posso tentare di disinteressarmene, posso dichiarare che non sono più ciò che ero accusare un cambiamento, un progresso. Ma si tratta di una seconda reazione e che si presenta come tale. Negare la mia solidarietà d’essere con il mio passato, sul tale o tal altro punto particolare, è affermarla per l’insieme della mia vita. Al limite, all’istante infinitesimale della mia morte, non sarò più che il mio passato. Esso solo mi definirà. È ciò che Sofocle intende esprimere quando nelle Trachinie fa dire a Deianira: ‹‹È una massima riconosciuta da lungo tempo fra gli uomini, che non ci si può pronunciare sulla vita dei mortali e dire se essa è stata felice o infelice, prima della loro morte››. Questo è anche il senso della frase di Malraux: La morte trasforma la vita in destino. Ed è infine ciò che abbatte il credente quando si rende conto con spavento che, al momento della morte il gioco è fatto e non gli resta più alcuna carta da giocare. La morte ci ricongiunge a noi stessi, quali dentro di noi l’eternità ci ha trasformati. Al momento della morte noi siamo, cioè siamo senza difesa di fronte al giudizio altrui; si può decidere in verità di ciò che siamo; non abbiamo più nessuna probabilità di sfuggire alla somma che una intelligenza onnisciente può fare. E il pentimento dell’ultima ora è uno sforzo totale per far crollare tutto questo essere che si è lentamente rappreso e solidificato sopra di noi, un ultimo sussulto per rompere i legami con ciò che siamo. Invano: la morte fissa questo sussulto con il resto, lo compone con ciò che l’ha preceduto, come un fattore fra gli altri, come una determinazione singolare che si capisce solamente partendo dalla totalità. Con la morte il per-sé si cambia per sempre in in-sé nella esatta misura in cui è scivolato tutto intero nel passato. Così il passato è la totalità sempre crescente dell’ in-sé che noi siamo.
La morte trasforma la vita in destino
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