L’intera tipologia dei ragazzi di vita, le loro fisiognomiche descrizioni, rimandano alla tradizione iconografica, da Caravaggio ai Macchiaioli, ad un colorismo affondato nella ritrattistica italiana: fermati, irrealizzati come quadri, con qualcosa di bloccato anche nella massima scompostezza, i loro volti paiono trattati a lacca, lucidi come un miraggio. Si badi, questo non è il procedimento tipico di certa narrativa classica, secondo il quale la descrizione si ispira a un quadro per trovare un fondamento, o nell’autorità del dipinto oppure nella maggiore verosimiglianza della pittura (già data in anticipo e tutta presuntiva, secondo uno scatto ideologico fondato sul principio dell’arte-rappresentazione). Ragazzi di vita non si ispira, magari occultamente, alla pittura, ma cita direttamente ed esplicitamente la sua tecnica: la pittura non è un riferimento esterno ma entra nel testo, facendo finta che proprio il testo sia costruito coi colori, coi pennelli. La pagina pasoliniana si presenta come quadro, esibendo tutta la relativa terminologia tecnica, con il risultato finale di escludere dall’omologia ogni intenzione rappresentativa, ogni trasparenza realista: la pagina diventa pagina-quadro allo scopo di mostrare la propria totale finzione, di mostrarsi come spettacolo innaturale, schermo visionario.
Funziona allo stesso modo l’altra grande omologia extra-romanzesca a cui il romanzo si appella: lo spettacolo teatrale. I movimenti, i dialoghi, si cristallizzano entro una forma esibita di recitazione, di scenografia, che li denuncia come falsificati: la vita dei ragazzi diventa un vastissimo trucco. Pensiamo a una serie di battute […] dove ognuno prepara con cura la sua « sparata », dove tutto è « forzato » e sottolineato dalla più rigida convenzionalità. Un vero e proprio pubblico è indispensabile alle battute dei ragazzi, una persona in qualche modo esterna al dialogo che funzioni da spettatore: tutti parlano, bloccati nelle loro maschere, solo per farsi sentire da un terzo, si atteggiano in pose per essere osservati, per affascinare (e ritroviamo nel testo, ancora una volta, il meccanismo retorico). Un esempio che vale per tutti è la grande scena del capitolo quinto (Le notti calde), il lungo incontro in piena notte dei ragazzi, reduci da un furto, con un vecchio, ladro anche lui per necessità. Tutto diventa un gioco di sguardi, una fitta regia di fermate, di passi, di falsi movimenti, nella lunga camminata notturna, e ognuno dei ragazzi alternativamente funge da pubblico agli altri due. In uno scambio vertiginoso delle parti, da attore a spettatore, nessuno rinunzia all’acquisizione cosciente della propria parte:
Il Lenzetta guardava rossastro il Riccetto, soddisfatto e ridacchiando fece, con un cenno del capo verso Alduccio: « Forza, schiavo. » Pure il Riccetto a quella sparata ridacchiò, e, sentendosi fijo de na mignotta associato, s’illuminò tutto; quello non chiedeva di meglio, e l’occhio gli brillò astutamente, perché, pur facendo la parte dello stronzo, non era che rinunciasse del tutto a far capire che, tra loro, s’erano capiti.
Tutto è spettacolo, osservato dalla canonica distanza tra pubblico e palcoscenico.
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