Einstein sull’oceano. Un abisso sopra un altro abisso. Immobile, sul ponte della nave, con addosso un cappotto nero. È l’8 ottobre del 1933. Pochi giorni prima aveva parlato alla Royal Albert Hall di Londra. Era la prima volta, sarebbe rimasta l’ultima. Quante prime e ultime volte costellano, senza saperlo, la vita di ciascuno. Aveva parlato delle paure e dell’Europa. Aveva utilizzato, per esprimersi e comunicare con il pubblico, quel suo inglese ancora segnato da un marcato accento tedesco. Tra le mani, un foglio minuto. Aveva tenuto per la gran parte del tempo il viso rivolto verso il basso, per seguire il filo delle parole scritte. Probabilmente alla fine, sentendosi insicuro di quella lingua, aveva preferito scrivere e poi leggere. Voleva essere certo di quel che avrebbe detto e di ciò che avrebbero ascoltato gli uditori. Aveva condiviso una preoccupazione che lui, prima di molti altri, sentiva molto pressante: «Come possiamo salvare l’umanità e le sue conquiste spirituali, delle quali siamo gli eredi? Come si può salvare l’Europa da un nuovo disastro?» Forse era stato più facile indagare la relazione segreta tra il tempo e lo spazio, inoltrarsi nell’insondabile dell’universo, che dirimere il groviglio del male dell’uomo. C’erano stati gli applausi di tutti gli spettatori che avevano riempito all’inverosimile la sala. Oltre diecimila persone per raccogliere fondi e aiutare chi doveva fuggire. La paura e gli applausi. Frenetici e ripetuti. Ma si poteva essere soddisfatti di quegli applausi? In fondo quel battere di mani denunciava una preoccupazione condivisa, ma il modo con cui era scoppiato, quella frenesia, serviva a confessare, soprattutto a sé stessi, l’incapacità di trovare una risposta efficace a quella domanda cosí urgente e necessaria.
La preoccupazione di Einstein per l’umanità e l’Europa
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