La prigione del corpo
Nell’opera di Egon Schiele il corpo subisce un trattamento che si potrebbe definire ai limiti del sadismo: eccessivamente magro, consunto, contratto, piegato in forme contorte.
Sono uomini (e donne) schizoidi quelli dipinti dall’artista viennese, che, per non sentire più la freddezza e l’ostilità dell’ambiente che li circonda, si torcono in uno spasmo, quasi volessero abbandonare il corpo stesso. È un corpo rinchiuso in una cella stretta e angusta quello che raffigura l’artista, in cui non c’è spazio per muoversi, dove a stento si riesce a respirare.
È un corpo che diviene esso stesso prigione.
È un corpo spesso isolato, immerso nella sua solitudine ed incomunicabilità, così come solo e prigioniero deve essersi sentito Egon sin dalla prima infanzia.
Possiamo immaginarlo sui banchi di scuola, sognatore ed introverso, mentre trascorre il tempo disegnando vagoni e locomotive. Agli occhi delle maestre appare un bambino distratto, non riescono a comprendere ciò che si cela nel suo animo e non perdono occasione per rimproverarlo. Nemmeno i genitori devono essere fieri di lui, vedendo svanire il destino di ingegnere che gli avevano prefigurato. Il padre però, superata l’iniziale reticenza, appoggerà con entusiasmo le sue inclinazioni, lasciando nella vita dell’artista un vuoto incolmabile al momento della sua precoce scomparsa. Nel 1905 infatti Egon Leon Adolf Schiele muore, aprendo nel giovane artista una ferita profonda che però avrà il merito di portare alla luce i temi dominanti della sua opera futura: l’associazione tra sesso, colpa, espiazione, insieme all’ossessione della morte e del declino.

Crediti
 Egon Schiele
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