Di tutte le stronzate che ho sentito in vita mia, quella che la scuola debba preparare i giovani al mondo del lavoro è sicuramente la peggiore. Non tanto perché, banalmente (ma neanche tanto, oggi tocca tener presente che stai parlando ai gibboni e non ai cristiani) la scuola deve fare la scuola, e un’ora di lezione di letteratura non è uguale a un’ora passata a smontare carburatori da Biancone, quanto perché è così che ti fottono. Perché si pensa che il mondo del lavoro sia una cosa diversa dal mondo in cui vorremmo vivere, e non è vero. Il cosiddetto mondo del lavoro è una figura mitologica, come i mercati, o L’Europa, popolata da bestie feroci. Animali ignoranti e rabbiosi, bestie con la bava alla bocca pronte ad ammazzare la gente di fatica, a patto che sia una fatica di merda.
Finché non si capisce che deve essere il mondo del lavoro ad adeguarsi a quell’inutile, meravigliosa perdita di tempo che è studiare la poesia, la storia, l’algebra, produrremo padroni spietati che pensano sia normale perquisire gli impiegati all’uscita della fatica o contargli i minuti al cesso e servi grati e riconoscenti per le perquisizioni o per il limone nel culo; e sforneremo partiti pieni di gentucola convinta che fare gli interessi dei ricchi e della finanza coincida con gli interessi dell’umanità, e imbecilli plagiati che corrono a votarli.
Che la scuola insegni un sano disprezzo per il lavoro, una puzza al naso nei confronti del denaro in sé: è questo l’unico modo di uscire da quella che i cafoni chiamano crisi, ma solo perché non hanno capito che è, invece, declino. Che continuerà inarrestabile finché la scuola smetterà di fornire gli anticorpi alla vita di merda che questa gente è pronta a farti trovare quando la scuola sarà finita. C’è tempo e modo di abituarsi, a schiaffi e calci in culo, che la vita non è poesia e filosofia, non è arte e letteratura: che almeno quando si è giovani si impari cosa sia importante e cosa invece, per quanto necessaria, renda la vita la merda che è.

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