Antichrist è un film psicologico del 2009 scritto e diretto da Lars von Trier, presentato al 62º festival di Cannes, il cui svolgimento è nelle mani di due soli attori davvero impeccabili: Willem Dafoe e Charlotte Gainsbourg, anche se solo a lei è andato il premio come migliore attrice. Lars Von Trier, impareggiabile regista, che fa discutere e scandalizza con i suoi film, soprattutto perché, apre sovente la botola più temuta, quella che spalanca sull’inconscio, lasciandone uscire la voce. E in questo film, lo fa oltre ogni limite e con grande maestria, tanto che lo spettatore non ha nessuno scampo, qualora non sia prevenuto, e la comprensione è data proprio, da quanto può reggere. Questa pellicola è stata dedicata da Von Trier alla memoria del regista sovietico Andrej Tarkovskij. C’è come un filo sottile che lega cose e persone, di cui la coscienza può solo prenderne atto, ma se solo si prova a voler dirigere, il fallimento è dietro l’angolo. Non volevo vedere questo film a suo tempo, non conoscevo ancora il regista e alcune scene cruenti, e una certa sensibilità disse: no, no! Ma a ciò che ti tocca non si sfugge, c’è un appuntamento mancato e l’inconscio lo sa, e il modo lo trova per raggirare te, che pensi di raggirare le cose. A distanza di un anno dall’uscita di questo film, anche dalla mia memoria, in una videoteca, la locandina di questi, mi colpì, come pure la trama: “Il figlio di una coppia muore tragicamente, cadendo da una finestra rimasta aperta, mentre i due genitori stanno facendo l’amore. Il marito, psicoterapeuta, decide di aiutare la moglie a superare il trauma, pur conscio della non ortodossia del comportamento. I due decidono di ritirarsi in una casa nel bosco di Eden allo scopo di vincere e superare le paure recondite della moglie, legate alla presunta malignità della natura. Quando il marito scopre le pulsioni distruttive della moglie, la vicenda diventa follemente tragica e si consuma in una spirale di crescente violenza semi-cosciente. L’ho visto poi il film, ma definirlo così, è sminuirlo, perché è molto di più, un vero portento: le immagini salgono direttamente dall’inconscio – sembra impossibile che si possa far tanto con una macchina da presa – e t’inchiodano a tutto il dolore di un’umanità, cui si vorrebbe sfuggire, ma non si può, quel bosco ti sommerge. Eden è il suo nome, non a caso, si torna alle origini, e anche i due protagonisti trovandosi in quest’ambiente, costretti ad entrare in contatto con sé stessi, ne sono: l’uno travolto in preda a paure ataviche e sfogo degli istinti più riposti, e l’altro, succube e stravolto, nella presa di questa spirale dal fascino oscuro. La violenza non ha sesso, dimenticarlo può essere letale. Il tutto insomma esplode, senza lasciare via d’uscita né a chi vede né a chi è visto. Dal prologo, di cui non si può dire, perché solo silenzio e visione rendono, muovendo sulle note di Lascia ch’io pianga di Hendel, si è catturati fino all’epilogo, dove ritroviamo le stesse note, per chiudere quel cerchio, dove ancora questo immenso dolore e male continua a girare.
La violenza non ha sesso
Video
Crediti
Ancora nessun commento