Durante tutto il giorno avevo atteso la domanda di grazia. Credo di aver sfruttato al massimo possibile quest’idea. Calcolavo gli effetti e ottenevo dalle mie riflessioni il miglior rendimento. Partivo sempre dalla supposizione peggiore: la domanda era respinta.
Ebbene, allora morrò. Più presto che molti altri, evidentemente.
Ma tutti sanno che la vita non val la pena di essere vissuta, e in fondo non ignoravo che importa poco morire a trent’anni oppure a settanta quando si sa bene che in tutti e due i casi altri uomini e altre donne vivranno e questo per migliaia d’anni.
Tutto era molto chiaro, insomma: ero sempre io a morire, sia che morissi subito, sia che morissi fra vent’anni. A questo punto quel che mi turbava un po’ nel mio ragionamento era il vuoto terribile che sentivo in me al pensiero di vent’anni di vita non ancora vissuta.
Ma non avevo che da soffocarlo immaginando quali sarebbero stati i miei pensieri dopo vent’anni, quando mi sarei dovuto trovare in ogni modo a quel punto. Dal momento che si muore, come e quando non importa, è evidente.
Dunque (e il difficile era di non perder di vista tutto il filo dei ragionamenti che quel dunque rappresentava), dunque dovevo accettare che il mio ricorso fosse respinto.
A questo punto soltanto, avevo per così dire il diritto, mi davo in certo qual modo il permesso di considerare la seconda ipotesi: ero graziato. La difficoltà era che dovevo render meno violento questo slancio del cuore e del corpo che mi pungeva gli occhi di una gioia insensata. Dovevo cercare di calmare quel grido, di ridurlo alla ragione. Dovevo essere ragionevole anche in questa ipotesi, se volevo rendere plausibile la mia rassegnazione nell’altra. Quando vi riuscivo, avevo conquistato un’ora di calma. Questo, perlomeno, era da tener presente, è in un simile momento che ho rifiutato ancora una volta di ricevere il prete.
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