Ogni madre è attraversata dall’amore per il figlio, ma anche dal rifiuto del figlio. Talvolta il rifiuto ha il sopravvento sull’amore, e allora assistiamo a quei casi di infanticidio. Caratteristica del sentimento materno è la sua ambivalenza. La retorica dei buoni sentimenti è una spessa coltre che stendiamo sull’ambivalenza della nostra anima, dove l’amore si incatena con l’odio, il piacere con il dolore, la benedizione con la maledizione. Condannare queste madri per i loro gesti è già nelle cose stesse, nel parere di tutti, e rasenta i limiti dell’ovvio.
Con la condanna, infatti, vogliamo soprattutto evitare di vedere in noi stessi la stessa ambivalenza che da sempre accompagna i nostri sentimenti per i figli, figli d’amore certo, ma anche di fastidio e in alcuni casi di odio. La donna che, con la possibilità di generare e di abortire, sente nel sottosuolo mai esplorato della sua coscienza, di essere depositaria di quello che l’umanità ha sempre identificato come “potere assoluto”: il potere di vita e di morte che il re ha sempre invidiato alla donna che genera, e in mille modi ha cercato di far suo.
Nella donna si dibattono due soggettività antitetiche perché una vive a spese dell’altra: una soggettività che dice “io” e una soggettività che fa sentire la donna “depositaria della specie”. Il conflitto tra queste due soggettività è alla base dell’amore materno, ma anche dell’odio materno, perché il figlio, ogni figlio, vive e si nutre del sacrificio della madre: sacrificio del suo tempo, del suo corpo, del suo spazio, del suo sonno, delle sue relazioni, del suo lavoro, della sua carriera, dei suoi affetti e anche amori.
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