Helena mi riposava dalla fatica che mi costano tutti gli altri, amici e conoscenti, ai quali sono costretto ad affiancarmi per undici mesi all’anno, elastico, rotondo, attento a rimbalzare al minimo attrito, angosciato se mi convinco di averne urtato qualcuno involontariamente. È un lavoro gratuito, nel senso che mi spreco in tanti riguardi senza nessuno scopo utilitario, che non sia quello di prevenire una sofferenza; l’antipatia infatti, o la freddezza, mi recano danno alla salute, e più se a dimostrarmela sono i conoscenti e gli estranei, che non gli amici. Di questa gente avventizia non m’importa, alla fine, un bel niente; ma se uno di loro mi guarda storto o mi rimprovera una distrazione nel dare e avere dei rapporti sociali, ho subito delle difficoltà nella digestione e devo prendere due pillole di sonnifero invece di una.
Dopo un anno di sorrisi a cinquanta o cento persone, verso le quali non mi sembra mai di essere gentile quanto dovrei, finisco col sentirmi intossicato; rispondo al telefono con un crampo nel braccio, sforzo la voce a una rauca festosità.
Fanno eccezione gli amici, le persone come Quiroga, o meglio come Cuca, con la quale riesco a essere affettuoso; non sono molte, cinque o sei in tutto.
L’antipatia mi reca danno alla salute
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