L'arte dell'anatema
Una domanda facile: — Come spiega quest’enorme amore per il teatro negli israeliani?
[Un professore ebreo-italiano in Israele:] «Il teatro, nella Diaspora, è stato per gli ebrei un modo di ritrovarsi e di rappresentarsi. Fors’anche un modo di ipotizzare un’esistenza più vera. Ancor oggi gli ebrei di New York preferiscono abitare in città, piuttosto che nei sobborghi, dove starebbero meglio, per non abbandonare i teatri e le sale di concerti, lontano dalle quali un ebreo si sente scoperto e abbandonato. Tutti qui vogliono scrivere per il teatro. In vent’anni, più di cento novità ebraiche, cinque o sei delle quali da conservare».
Il teatro può servire anche, nei limiti del paradosso, a spiegare l’abisso che separa arabi e israeliani. Averroè, nel commento alla Poetica di Aristotile, dovendo spiegarsi il significato di tragedia e commedia, e non conoscendone esempi, si risolse nel definire la tragedia l’arte del panegirico e la commedia l’arte dell’anatema. Senza rifarsi a Renan, J. L. Borges ci spiega con molta eleganza nella sua Ricerca di Averroè, perché il filosofo arabo non poteva intendere il significato di tragedia come rappresentazione, sembrandogli assurdo che delle persone rappresentassero una storia accaduta o ipotetica invece di lasciare questo compito a un unico narratore.
Comunque, l’arabo non ha teatro, oppure ogni arabo ha il suo proprio teatro personale, l’immaginazione, con la quale evita spesso la realtà. La rêverie è il rifugio teatrale dell’arabo. Ogni arabo vive il suo teatro, l’ebreo preferisce rappresentarlo.

Crediti
 Ennio Flaiano
 Un giorno a Bombay e altre note di viaggio
  Brano tratto dall'articolo pubblicato su L'Europeo il 17 agosto 1967 con il titolo «Hanno rinunciato alla televisione»,
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