A volte sogno che Mario Santiago
viene a prendermi con la sua motocicletta nera.
Ci lasciamo alle spalle la città e man mano
che le luci vanno sparendo
Mario Santiago mi dice che si tratta
di una moto rubata, l’ultima moto
rubata per viaggiare attraverso le povere terre
del nord, in direzione del Texas,
inseguendo un sogno innominabile,
inclassificabile, il sogno della nostra gioventù,
cioè il sogno più intrepido di tutti
i nostri sogni. E allora non c’è niente
che possa impedirmi di montare sulla veloce moto nera
del nord e uscire sparati per quelle strade
che anticamente percorrevano i santi del Messico,
i poeti mendicanti del Messico,
le sanguisughe taciturne di Tepito
o la colonia Guerrero, tutti sullo stesso sentiero
dove si confondono e rimescolano i tempi
verbali e fisici, il passato e l’afasia.
A volte sogno che Mario Santiago
viene a prendermi, o è un poeta senza volto,
una testa senza occhi, né bocca, né naso,
solo pelle e volontà, e io senza chiedere niente
salgo sulla moto e partiamo
per le strade del nord, quella testa e io,
strani marinai imbarcati su una rotta
miserabile, sentieri cancellati dalla polvere e dalla pioggia,
terra di mosche e lucertole, cespugli rinsecchiti
e tempeste di sabbia, l’unico teatro possibile
per la nostra poesia.
A volte sogno che la strada
che la nostra moto o il nostro desiderio percorre
non incomincia nel mio sogno ma in quello
di altri: gli innocenti, i felici,
i mansueti, quelli che per nostra disgrazia
non sono più qui. E così Mario Santiago e io
usciamo dalla città messicana che è il prolungamento
di tanti sogni, la materializzazione di tanti
incubi, e risaliamo gli stati
sempre verso nord, sempre sul sentiero
dei coyote, e la nostra moto allora
è un asino nero che viaggia senza fretta
per le terre della Curiosità. Un asino nero
che avanza attraverso l’umanità e la geometria
di questi poveri paesaggi desolati.
E le risate di Mario o della testa
salutano i fantasmi della nostra gioventù,
il sogno innominabile e vano
del coraggio.
A volte credo di vedere una moto nera
come un asino che si allontana per le strade
sterrate di Zacatecas e Coahuila, ai confini del sogno,
e senza riuscire a comprenderne
il senso, il suo significato ultimo,
capisco comunque la sua musica:
un’allegra canzone di addio.
E forse sono i gesti coraggiosi quelli che
ci dicono addio, senza risentimento né amarezza,
in pace con la loro gratuità assoluta e con noi stessi.
Sono le piccole sfide inutili – o che
gli anni e l’abitudine ci indussero
a ritenere inutili – quelle che ci salutano,
quelle che fanno segni enigmatici con le mani,
in piena notte, sul margine della strada,
come nostri figli amati e abbandonati,
cresciuti come soli in questi deserti calcarei,
come lo splendore che un giorno ci attraversò
e che avevamo dimenticato.
A volte sogno che Mario arriva
con la sua motocicletta nera nel mezzo dell’incubo
e partiamo diretti al nord,
verso i paesi fantasma dove abitano
le lucertole e le mosche.
E mentre il sogno mi trasporta
da un continente all’altro
attraverso una doccia di stelle fredde e indolori,
vedo la moto nera, come un asino di un altro pianeta,
dividere in due le terre di Coahuila.
Un asino di un altro pianeta
che è il desiderio slabbrato della nostra ignoranza,
ma che è anche la nostra speranza
e il nostro coraggio.
Un coraggio innominabile e inutile, è vero,
ma ritrovato sui margini
del sogno più remoto,
tra le partizioni del sogno finale,
sul sentiero confuso e magnetico
degli asini e dei poeti.
L’asino
Crediti
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