Come la storia semplice diventa confusa e Josef K. si arrende all’impossibilità di venirne a capo, allo stesso modo la verità si dissolve nella sua interpretazione, anzi diventa l’interpretazione stessa: ma questo distrugge la possibilità stessa dell’interpretazione della Scrittura, perché essa coinciderà con l’opinione su di essa. Kafka pensa proprio questa dialettica statica, aporetica, tra verità e interpretazione: la verità può abitare solo nell’interpretazione, nella domanda, nell’interrogazione, ma una verità che dimori solo in questi spazi toglie se stessa in quanto verità. Dunque né interpretazione né verità possono sussistere, ciascuna trasforma l’altra, la neutralizza, la rende indifferente. Ed è qui che Josef K. scrive la sua condanna: egli emette la sua stessa sentenza, è condannato dalla sua impossibilità di venire a capo dell’aporia, tra la Legge come possibilità prossima e la vita come impossibilità di attingerla anche solo parzialmente. Il suo pensiero è una freccia di Zenone che non giunge mai a colpire il suo bersaglio: ecco la sua colpa. E non perché K. sia un inetto sveviano, un pigro, un irresoluto, un antieroe, un antipersonaggio beckettiano: K. non attende nessun Godot. Ma K. è condannato proprio perché pensa fino in fondo, fino all’estremo, sia la freccia (l’interpretazione) che il bersaglio (la verità, la Legge). La sua colpa sta in questo soccombere al pensiero da lui stesso suscitato, al suo stesso vano chiedersi in che cosa consista la sua colpa: tutta la sua gnoseologia vorrebbe risolversi in un giudizio, vorrebbe oggettivare quella struttura di oggettivazione che la Legge stessa è. Ma la Legge – struttura di oggettivazione, necessità immutabile – non si lascia a sua volta oggettivare, perché se così fosse ci sarebbe qualcosa di ancora più oggettivo di essa stessa e – dunque – il problema si riproporrebbe.

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Frammenti ⋮ Maria Lo Conti ⊚
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