Nel 2012, Mario Draghi annuncia: «Il modello sociale europeo è già finito quando vediamo i tassi di disoccupazione di alcuni Paesi». Draghi vede la fine del tempo in cui Rudi Dornbusch diceva che gli europei sono così ricchi da permettersi di pagare tutti per non lavorare. Poche settimane dopo, nella conferenza stampa della Banca centrale europea, Draghi specifica che la sua intenzione è sottolineare la necessità di «rivisitare» il modello sociale europeo: anche se crede nei valori di inclusione e solidarietà, «le attuali regole rendono insostenibile questo modello», che comunque non è «europeo» nel suo complesso, ma riguarda alcuni Paesi.
Identità europea, ripresa economica, futuro politico: tutti questi aspetti sono affidati, suo malgrado, a un banchiere centrale. Come ha scritto Harold James, «in un certo senso, le banche centrali hanno iniziato a somigliare alle facoltà filosofiche medievali, con discussioni che considerano le questioni che stanno dietro le decisioni politiche, oltre che semplicemente le politiche stesse». I banchieri centrali si trovano, nel secondo decennio del secondo millennio, al centro della scena. Allo stesso tempo, la scena stessa è una domanda di ripoliticizzazione, che mette in gioco il rapporto tra il potere indipendente e il vincolo elettorale. Draghi, oltre a recarsi al parlamento europeo, discute al parlamento tedesco le politiche della BCE, fa pienamente parte di un’arena pubblica. Anche questa delega da parte dei poteri politici, per via dei loro vuoti, non è risolutiva. Funziona come una peculiare dose di serotonina, che prolunga la fine del secolo socialdemocratico, senza affrontare realmente né i suoi conflitti interni né lo spettro di una crisi diventata declino, nell’ideologia, nella difesa, nell’innovazione.
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