La maestra puntò la bacchetta sull’immagine di una chitarra acustica.
«Chi vuole sillabare questa parola?».
Alzai la mano, col sorriso della certezza stampato in faccia.
«g-h-i-t-a-r-e. Ghitare».
La classe scoppiò a ridere.
«Marilena, in italiano questa è una chitarra. So che in africano è diverso. Cerca solo di non confondere più le due lingue, va bene?».
L’africano raggruppava, a dire della maestra Pennacchia, le migliaia di lingue e dialetti che costellavano l’Africa intera.
Ghitare fu la prima di tante parole che dovetti re-imparare a scuola. Cortero fu corretto in coltello, aise in aids.
Mamma mi parlava in un italiano immigrato. Un misto di parole francesi, bergamasche e rwandesi. Era un italiano approssimato il suo, appreso da cartoni animati e vicini di casa che parlavano solo dialetto.
Quel pomeriggio, di rientro dal lavoro, mamma accostò una sedia alla mia per leggere con attenzione ciò che stavo scrivendo.
«Vai via, smettila di farmi sbagliare».
La scansai, ma lei non accennò a muoversi.
«Oggi la maestra ci ha spiegato che ghitare non è una parola. Si dice chitarra, e si scrive in questo modo…».
Fu così che mia madre – lei che in Rwanda era stata direttrice e insegnante di filosofia, chimica, algebra, letteratura e lingua francese, corse a prendere carta e penna. Da brava studentessa, copiò la parola che avevo appena scritto cinque volte. Fu la prima di tante lezioni d’italiano a venire.
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