Come potremmo noi accontentarci dell’uomo di oggi? È abbastanza grave, ma è inevitabile che soltanto con un inutile sforzo per mantenerci seri possiamo guardare alle sue più degne mete e speranze, e forse non guardiamo neppure più. Un altro ideale ci precede correndo, un prodigioso ideale, tentatore, ricco di pericoli, al quale non vorremmo convincere nessuno, poiché non è così facile riconoscere a qualcuno il diritto a esso: l’ideale di uno spirito che ingenuamente, cioè suo malgrado e per esuberante pienezza e possanza, giuoca con tutto quanto fino a oggi fu detto sacro, buono, intangibile, divino; uno spirito per il quale il termine supremo, in cui il popolo ragionevolmente ripone la sua misura di valore, significherebbe già qualcosa come pericolo, decadenza, abiezione, o per lo meno diversivo, cecità, effimero oblio di sé; è l’ideale di un umano-sovrumano benessere e benvolere, un ideale che apparirà spesso disumano, se lo si pone, ad esempio, accanto a tutta la serietà terrena fino a oggi esistita, a ogni specie di solennità nei gesti, nella parola, nell’accento, nello sguardo, nella morale e nel compito, come fosse la loro vivente parodia…
L’effimero oblio di sé
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