La stanza dove mi trovavo era un luogo a me ignoto e tuttavia familiare, come se la memoria ne avesse conservato non già il ricordo di un’esperienza sensibile ma una reminiscenza connessa ad un’altra esistenza, ad altri soggetti e luoghi e tempi non paragonabili a me e alla mia vita, ma ad un me collocato in un altrove spaesato eppure esistente o esistito.
Il letto su cui giacevo era un grande letto di ottone che non avevo mai visto prima di allora ma che però era stato sicuramente mio e così il resto di quella stanza, la finestra che si apriva su una striscia di mare azzurro e l’altra sulla parete di fondo che guardava verso le colline alberate di ulivi; l’armadio di noce dove erano riposte le telerie, le lenzuola, le tovaglie, i corredi delle spose e il sentore antico della lavanda; il cassettone dove ogni anno a settembre si stipavano i fichi seccati al sole che duravano fino alla pasqua di aprile, odorosi di alloro e di cannella.
Letto di ottone che non avevo mai visto prima
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