Abbandonare una casa paterna, un’ordine in cui ci si sente negletti e diseredati, non è una scelta facile, perché è una sterile ribellione che somiglia pericolosamente a una resa, a un sanzionare una volta per tutte la propria “indegnità“. Ma restare prigionieri di quell’ordine che mortifica i nostri bisogni autentici ci farebbe comunque sentire indegni e spregevoli.
Il profondo disprezzo che imprigiona l’animo dell’uomo dostoevskijano è, sì, il rifiuto di tutto ciò che gli impedisce un normale flusso di energie verso la realtà, una normale vita di relazione, una serena e lineare progettualità di esistenza; ma si configura anche come un’autentica autoaccusa, ed è alla luce di questa spietata autodiagnosi – “forse io mi credo un uomo intelligente proprio e solo per questa ragione, che in tutta la mia vita non m’è mai riuscito di portare a termine nulla” (Dostoevskij 1864, 38) – che il nostro personaggio si accinge ad aprire il sipario di uno sconvolgente teatro interiore, per permettere ai suoi immaginari interlocutori di entrarci con uno sguardo indiscreto e impietoso.
In realtà le serrate autoaccuse che picchettano il percorso di queste personalità derivano dalla mancanza di categorie interpretative della propria dimensione psicologica: chi non scorge qualche risposta a problematiche che in ragione di ciò appaiono insormontabili, anziché allearsi con se stesso nella faticosa impresa di costruzione della propria identità, finisce per diventare il proprio nemico, il proprio distruttore, col costruirsi un’identità negativa.
L’identità dell’uomo del sottosuolo – sognatore ferito e disperato, figura di eroe rovesciato, di solitario sconfitto nel suo perenne masochismo, rinchiuso in un sudicio sotterraneo in cui espia la sua oscura colpa – è un’identità negativa, la rabbiosa sfida a un’esistenza senza progettualità, senza futuro.

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