È più importante ciò che gli altri pensano di noi o ciò che siamo? E ciò che siamo non è sempre e soltanto pensiero, anche se nostro?
Questo movimento all’interno del nostro cervello che chiamiamo pensiero, dividendosi acquista un Io narrante, e si dipana così, una storia in parte, quella parte che gli riesce di cogliere, e che proviene da sensazioni, impressioni, che si fanno immagini, parole, e il tutto finisce per confluire, in quella che, alla resa dei conti, chiamiamo identità: chi sono? Io! Anche se ciò che ne esce è sempre non un chi, ma un qualcosa: un insieme di circuiti, d’inneschi, un misto di azioni e reazioni, in una soluzione di continuità. E in questo guazzabuglio, l’io cerca di assemblare e tenere insieme il tutto, per poter dare una forma psicologica – un’identità – come la stessa natura ha fatto, per questo corpo che si ritrova. Il corpo come entità ci sta, e richiama un io che è questo corpo, ma c’è altro, deve esserci altro per un Io che racconta storie, per questo pensiero che se si ferma è perduto, e che invece proprio perdendo questo movimento, quest’essere parte e in parte, si ritroverebbe intatto. Ecco che allora, l’identità, è piuttosto qualcosa da sciogliere, per essere in relazione, per essere mondo e non il proprio mondo, dove il dialogo è sempre costantemente fra sé e sé, pur essendoci l’Altro, pur essendoci altro. Laddove non si fluisce, si ristagna, seppur nel moto, e persino il nostro chiedere diventa fittizio, in quanto, non si chiede altro che una conferma di sé per sentirsi rassicurati, giustificati nel proprio modo di essere, poiché i dubbi, non sono mai su quanto si chiede, ma indirettamente verso sé stessi, dubbi che la natura dal movimento non scisso, non ha.
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