Ricordo un anno al Festival di Taormina, Carmelo Bene si costituì in giuria a sé, come presidente di sé stesso, e passava gran parte delle notti a discutere sul bordo della grande piscina del San Domenico con un po' di amici e con Raul Ruiz. Erano dispute teologiche, appassionatissime perché in realtà distaccatissime, come un gioco di fioretto – che è tutto legato al guizzare, alla precisione – dove nessuno aveva in mano il fioretto.
C'è un senso di autodistruzione, di voglia di ripetere, e nella ripetizione dimostrare il vuoto del cinema, che rarissimamente è stata fatta in assoluto nel cinema. Ma da cineasti molto più intellettuali e molto più presuntuosi, comunque presenti nel dire questo, uno per tutti Godard. Questo côté Godard, perfino debordiano, o debordante, distruttivo, nichilista, di Kitano, fa il paio – questa è la cosa sublime – con la capacità invece d'essere classico. Ovvero un cinema che è per sempre, e che nello stesso tempo è nulla.
È, fin dall'inizio, lo scontro con sé stesso, specialmente nello specchio, come nemico, come altro, come irraggiungibile; è lo scontro con la separazione dello spettacolo.
Shining è il gioco vertiginoso e insuperato tra i luccichii del look e le spietatezze teoriche dell'Overlook (Hotel...). Senza bisogno di mostrare la trasformazione, Shining ci dà lo stesso risultato del geniale La cosa di Carpenter; ogni immagine, se il cinema esiste, è la negazione della propria verità. Il grande attore/scrittore (Nicholson in figura di autore...) è un manichino della storia. Il suo sguardo non è suo, la sua storia non è la sua. È una storia narrata mille volte da un'altra macchina o da un altro occhio. Paura e desiderio
In piena luce è il segreto del cinema di Ciprì e Maresco. Anzi, è la luce stessa. In essa consiste, aura immateriale e garanzia della visibile e «mostruosa» ed eccessiva materialità dei corpi.
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