Sul pessimismo di Schopenhauer Nietzsche, figlio traditore e rinnegato secondo Verrecchia, fa dell’ironia: «aveva bisogno di nemici per conservare il buonumore; amava le parole rabbiose, biliose, nero verdastre; andava in collera per andare in collera, per passione; si sarebbe ammalato, sarebbe diventato pessimista (giacché non lo era, per quanto lo desiderasse) senza i suoi nemici, senza Hegel, la donna, la sensualità e tutta la volontà di vivere, di continuare a esistere. […] I suoi nemici lo indussero sempre di nuovo a vivere, la sua collera era, in tutto come per i cinici antichi, il suo ristoro, la sua ricreazione, la sua ricompensa, il suo remedium contro il disgusto, la sua felicità».
Ora, è vero che Schopenhauer aveva un lato bonvivant; che, a differenza di Nietzsche, godette dell’amore (particolarmente godibile è la sua storia d’amore con la veneziana Teresa Fuga, che gli scriveva lettere sgrammaticate e lo chiamava Scharrenhaus, ma era evidentemente molto più preparata su un altro piano). Godette pure della buona tavola, degli agi consentitigli dalla rendita ereditata dal padre e alla fine anche della fama; è vero, insomma, che vi era una certa incoerenza tra la predicazione e la vita, in parte anche ammessa, come s’è visto. Ma della sua serietà fondamentale e del suo pessimismo e radicale ateismo non si può veramente dubitare, benché anche contro quest’ultimo sorgesse in lui qualche reazione. Non si può dubitare neanche di alcuni buoni motivi che aveva per incollerirsi, in particolare contro gli accademici che lo ignoravano. E anche nella descrizione delle brutture umane sopra riportata, come negare che c’è in essa molta verità?
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