Forse con maggior chiarezza che qualunque altra scienza, la psicologia dimostra la transizione spirituale dall’epoca classica alla moderna. La storia della psicologia fino al diciassettesimo secolo consiste essenzialmente nella enumerazione di dottrine riguardanti l’anima, senza che l’anima abbia possibilità di interloquire in quanto oggetto investigato. Come dato immediato dell’esperienza essa pareva già talmente nota a ogni pensatore che egli era convinto non ci fosse nessuna necessità di una ulteriore esperienza, tanto meno oggettiva. Questo atteggiamento è totalmente estraneo al punto di vista contemporaneo, giacché oggi siamo dell’opinione che, oltre e al di sopra di ogni certezza soggettiva, è necessaria una esperienza oggettiva per confermare una opinione che avanzi la pretesa di essere scientifica. Nonostante questo è tuttavia ancora difficile, perfino oggi, applicare coerentemente alla psicologia il punto di vista puramente empirico o fenomenologico, poiché l’ingenua idea originaria che l’anima, essendo il dato immediato dell’esperienza, sia il meglio conosciuto di tutti i dati conoscibili, è una delle nostre convinzioni più profondamente radicate. Non solo ogni profano pretende di poter avere un’opinione, ma anche ogni psicologo e non semplicemente nei riguardi der soggetto ma, ciò che ha maggiori conseguenze, anche dell’oggetto. Egli sa, o piuttosto pensa di sapere, quello che accade in un altro individuo; e quello che è bene per lui. Questo è dovuto meno a un sovrano disprezzo delle differenze che a un tacito presupposto che tutti gli individui siano identici. È una conseguenza di ciò l’inclinazione alla fede nella universale validità delle opinioni soggettive. Menziono questo fatto soltanto per dimostrare che, malgrado il crescente empirismo degli ultimi trecento anni, l’atteggiamento originario non è affatto scomparso. Il permanere della sua esistenza dimostra soltanto quanto sia difficile la transizione dal vecchio atteggiamento filosofico a quello moderno empirico.
Naturalmente non venne mai fatto di pensare, ai rappresentanti dell’antica opinione, che le loro dottrine non erano altro che fenomeni psichici, poiché si presupponeva ingenuamente che con l’aiuto dell’intelligenza o ragione l’uomo potesse quasi evadere dalla sua condizione psichica e trasferirsi su un piano sovrapsichico e razionale. Non ci si chiedeva ancora se in fondo le affermazioni dello spirito umano non potessero essere sintomi di certe condizioni psichiche. Questa domanda, assolutamente naturale, ha conseguenze così vaste e rivoluzionarie che possiamo capire fin troppo bene perché passato e presente abbiano fatto del loro meglio per ignorarle. Siamo ancor oggi molto lontani dal concetto di filosofia del Nietzsche, e precisamente della teologia, come ancilla psychologiae, poiché nemmeno lo psicologo è disposto a considerare le proprie affermazioni del tutto alla stregua di confessioni soggettivamente condizionate. Possiamo parlare di uniformità per i soggetti individuali soltanto in quanto essi sono in larga misura inconsapevoli delle loro reali differenze. Quanto più un uom è inconsapevole tanto più si conformerà al canone generale del comportamento psichico. Ma quanto più egli diverrà consapevole della propria individualità, tanto più pronunciata sarà la sua differenza dagli altri soggetti e tanto meno si conformerà alle comuni aspettative. Inoltre le sue reazioni sono molto meno prevedibili. Questo è dovuto al fatto che una coscienza individuale è sempre più altamente differenziata e più estensiva. Ma quanto più estensiva essa diventa, tanto più percepirà le differenze, e si emanciperà dalle regole collettive, poiché la libertà empirica del volere cresce in proporzione alla estensione della coscienza.
A mano a mano che procede la differenziazione individuale della coscienza, la validità oggettiva delle sue opinioni proporzionalmente decresce e la loro soggettività aumenta. Non si può più tenere per certo che i propri preconcetti personali siano applicabili a altri. Questo sviluppo logico ebbe per conseguenza che nel diciassettesimo secolo – un secolo di grande importanza per lo sviluppo della scienza – la psicologia cominciò ad emergere a lato della filosofia, e fu Christian von Wolff (1679-1754) il primo a parlare di psicologia empirica o sperimentale riconoscendo in tal modo la necessità di porre la psicologia su una nuova base. La psicologia doveva escludere la definizione razionale di verità del filosofo, poiché gradatamente era apparso chiaro che nessuna filosofia aveva una sufficiente validità generale da adattarsi uniformemente alla varietà dei soggetti individuali. E siccome, anche per questioni di principio, era possibile un numero indefinitamente grande di differenti dichiarazioni soggettive, la cui validità a sua volta poteva essere assenta solo soggettivamente, divenne naturalmente necessario abbandonare la discussione filosofica per sostituirla con l’esperienza. In tal modo la psicologia divenne una scienza naturale.
Per il momento la filosofia tuttavia conservò la sua presa sul vasto campo della psicologia razionale o speculativa, e soltanto con il passare dei secoli quest’ultima poté svilupparsi in una scienza naturale. Neppure oggi la trasformazione è completa. La psicologia come materia di studio fa parte ancora nella maggior parte delle Università della Facoltà di Filosofia, e la psicologia clinica deve trovare rifugio presso la Facoltà di Medicina. Così, ufficialmente, la situazione è ancora per lo più medievale, dato che perfino le scienze naturali sono ammesse soltanto come Phil. II sotto il mantello della Filosofia Naturale. Sebbene sia ovvio da almeno duecent’anni che la filosofia dipende soprattutto da premesse psicologiche, fu fatto tutto quanto era possibile per oscurare l’autonomia delle scienze empiriche, quando la scoperta della rotazione della Terra e delle lune di Giove non poté più a lungo esser negata. Di tutte le scienze naturali la psicologia è stata la meno capace di conquistarsi l’indipendenza.
Questa arretratezza mi sembra significativa. La posizione della psicologia è paragonabile a quella di una funzione psichica che è inibita dalla mente cosciente; è ammessa l’esistenza soltanto di quei componenti di essa che si accordano con la prevalente tendenza della coscienza. Qualunque cosa non sia in accordo viene negata come esistente, nonostante ci siano numerosi sintomi o fenomeni che provano il contrario. Chiunque abbia una certa familiarità con questi processi psichici sa con quali sotterfugi e quali manovre di autoinganno si cerchi di eliminare l’inconveniente. Accade precisamente lo stesso per la psicologia empirica: disciplina subordinata alla generale psicologia filosofica, la psicologia sperimentale è ammessa come una concessione all’empirismo della scienza naturale, ma è appesantita di termini tecnici della filosofia. Per quanto riguarda la psicopatologia, essa è stata collocata nella Facoltà di Medicina come una curiosa appendice alla psichiatria. La psicologia clinica, come ci si può ben aspettare, trova scarso o nullo riconoscimento nelle università.
Mi esprimo in modo piuttosto drastico sull’argomento perché cerco di mettere in rilievo la posizione della psicologia tra la fine del diciannovesimo e l’inizio del ventesimo secolo. Il punto di vista di Wundt è perfettamente indicativo della situazione – anche perché dalla sua scuola è uscita una serie di notevoli psicologi che fissarono la posizione della psicologia agli inizi del ventesimo secolo. Nel suo Lineamenti di psicologia, Wundt dice:
Qualunque elemento della psiche che sia scomparso dalla coscienza deve essere chiamato inconscio nel senso che abbiamo in noi la possibilità del suo rinnovamento, cioè della sua riapparizione nella interconnessione pratica dei processi psichici. La nostra conoscenza di un elemento che è divenuto inconscio non si estende oltre la possibilità del suo rinnovamento… Pertanto esso non ha significato alcuno se non come disposizione all’emergere di elementi futuri… Considerazioni circa lo stato dell’inconscio o dei processi inconsci di qualunque tipo… sono completamente improduttive per la psicologia. Ci sono, naturalmente, concomitanti fisiche della disposizione psichica menzionata, delle quali alcune possono essere direttamente dimostrate, altre dedotte da varie esperienze.
Un rappresentante della scuola di Wundt ritiene che uno stato psichico non può essere descritto come tale se non abbia raggiunto perlomeno la soglia della coscienza. Questa argomentazione presume, o piuttosto afferma, che soltanto il conscio è psichico e che perciò ogni psichico è conscio. L’autore dice stato psichico: logicamente avrebbe dovuto dire stato poiché si sta appunto esaminando se un tale stato sia psichico. Segue un’altra argomentazione: il più semplice fatto psichico è la sensazione, poiché essa non può essere analizzata in fatti più semplici. Di conseguenza quanto precede o sta sotto una sensazione non è mai psichico, ma soltanto fisiologico. Ergo, l’inconscio non esiste.
J. F. Herbart ha detto una volta: Quando una rappresentazione [idea] cade al di sotto della soglia della coscienza essa continua a vivere in una forma latente, tentando continuamente di attraversare la soglia e di rimuovere le altre rappresentazioni. Così formulata, la proposizione è indubbiamente corretta, poiché sfortunatamente ogni cosa veramente dimenticata non tende affatto a di attraversare la soglia. Se Herbart avesse detto complesso nel senso moderno della parola anziché rappresentazione, la sua proposizione sarebbe stata assolutamente esatta: difficilmente potremmo sbagliare supponendo che egli intendesse dire proprio qualcosa del genere. A questo proposito un oppositore filosofico dell’inconscio fa la seguente osservazione assai chiarificatrice: Una volta che ciò sia stato ammesso, ci si trova alla mercè di ogni forma di ipotesi concernenti la vita inconscia, ipotesi che non possono essere controllate da alcuna osservazione. Questo pensatore non è lontano dal riconoscere i fatti, ma per lui è decisivo il timore di incorrere in difficoltà. Come può pere che queste ipotesi non possono essere controllate, dall’osservazione? Per lui questo è semplicemente un a priori. Ma egli non riesce a confutare l’osservazione di Herbart.
Cito questo caso non per il suo significato positivo ma soltanto perché esso caratterizza l’essenza dell’antiquato atteggiamento filosofico verso la psicologia empirica. Wundt stesso è dell’opinione che per quanto riguarda i cosiddetti processi inconsci, non si tratta di una questione di elementi psichici inconsci ma soltanto di elementi consci in maniera più oscura e che agli ipotetici processi inconsci potrebbero essere sostituiti processi dimostrabili praticamente o comunque processi consci meno ipotetici. Questo atteggiamento implica una chiara ripulsa dell’inconscio come ipotesi psicologica. I casi di doppia coscienza egli li spiega come modificazioni della coscienza individuale che assai spesso si verificano in costante successione, e alle quali, con un violento travisamento dei fatti, viene sostituita una pluralità di coscienze individuali. Queste, così argomenta Wundt, dovrebbero essere simultaneamente presenti in un solo e medesimo individuo, il che, egli dice, come è da tutti riconosciuto non è possibile. Senza dubbio è difficile che due coscienze si esprimano simultaneamente in un singolo individuo in una forma clamorosamente riconoscibile. Per questa ragione di solito i due stati si alternano. Pierre Janet ha dimostrato che, mentre una coscienza controlla il capo, per così dire, l’altra simultaneamente si mette in comunicazione con l’osservatore per mezzo di un codice di movimenti manuali espressivi. La doppia coscienza può benissimo essere perciò simultanea.
Wundt pensa che l’idea di una doppia coscienza, e quindi di una supercoscienza e di una subcoscienza nel senso di Fechner, sia una sopravvivenza del misticismo psicologico della scuola di Schelling. Ovviamente egli confonde la rappresentazione inconscia con una rappresentazione che nessuno ha. In questo caso anche la parola rappresentazione sarebbe superata, poiché allude a un soggetto cui qualcosa è presente o viene presentato. Questa è la ragione fondamentale per la quale Wundt respinge l’inconscio. Ma possiamo facilmente aggirare questa difficoltà parlando non di rappresentazione o di percezione, ma di contenuto, come di solito faccio io. Qui devo anticipare un punto del quale tratterò abbastanza diffusamente in seguito, cioè che ai contenuti inconsci si riferisce qualcosa di assai simile alla rappresentatività o alla coscienza, cosicché la possibilità di un soggetto inconscio diventa una questione seria. Un tale soggetto non si identifica tuttavia con l’ego. Che fossero soprattutto le rappresentazioni la bestia nera di Wundt è chiaro anche dal suo insistente rifiuto delle idee innate. Quanto egli prendesse alla lettera questo concetto lo si può rilevare dal brano seguente: Se un animale neonato avesse realmente anteriori a un’idea tutte le azioni che si propone di compiere, quale ricchezza di anticipate esperienze vitali giacerebbero immagazzinate negli istinti animali e umani, e quanto dovrebbe sembrare incomprensibile il fatto che non solo gli uomini, ma anche gli animali debbano acquisire la maggior parte delle cose solo attraverso l’esperienza e la pratica! Esiste tuttavia uno schema di comportamento innato, e proprio come cassa del tesoro di esperienze di vita, non anticipate, ma in realtà accumulate; soltanto che non si tratta di rappresentazioni ma di abbozzi, di piani o di immagini, che sebbene non siano effettivamente presenti all’ego, sono tuttavia altrettanto reali dei cento talleri di Kant, che erano stati cuciti nella fodera di una giacca e dimenticati dal proprietario. Wundt potrebbe essersi ricordato di Christian von Wolff che egli stesso nomina e della sua definizione degli stati inconsci che possono essere dedotti soltanto da ciò che troviamo nella nostra coscienza.
Alla categoria delle idee innate appartengono anche le idee elementari di Adolf Bastian, che ci permettono di intendere le forme fondamentalmente analoghe di percezione che si possono trovare dovunque; esse corrispondono perciò più o meno a quelli che oggi chiamiamo archetipi. Wundt, naturalmente, dubita di questa nozione, ancora nella falsa opinione che si tratti di rappresentazioni e non di disposizioni. Egli dice: Il prodursi di un solo e medesimo fenomeno in luoghi diversi non è assolutamente impossibile, ma, dal punto di vista della psicologia empirica, improbabile al massimo. Egli nega un comune retaggio psichico dell’umanità e respinge l’idea stessa di un intellegibile simbolismo mitico con la caratteristica affermazione che la supposizione di un sistema di idee che si nasconda dietro il mito è impossibile. La pedante assunzione che l’inconscio sia, tra tutte le cose, un sistema di idee, non avrebbe retto neppure ai tempi di Wundt, per non parlare di prima o di dopo.
Sarebbe sbagliato credere che il rifiuto dell’idea di inconscio nella psicologia accademica della fine del secolo fosse generale: non è affatto vero, poiché Fechner, e dopo di lui Theodor Lipps, avevano dato all’inconscio un posto di decisiva importanza. Sebbene per Lipps la psicologia sia una scienza della coscienza egli parla tuttavia di percezioni e rappresentazioni inconsce che considera come processi. La natura o, più precisamente, l’idea di un processo psichico non è tanto un contenuto conscio o una esperienza conscia quanto la realtà psichica che si deve necessariamente pensare alla base dell’esistenza di un tale processo. L’osservazione della vita conscia ci persuade che non solo a volte si possono ritrovare in noi percezioni e rappresentazioni inconsce, ma che la vita psichica viene influenzata da me costantemente, e che soltanto occasionalmente, in punti particolari, quello che opera dentro di noi rivela direttamente la sua presenza con immagini appropriate. Pertanto la vita psichica va sempre molto al di là dei limiti di quello che è o può essere presente in noi sotto forma di contenuto conscio o di immagini.
Le osservazioni di Theodor Lipps non contrastano in alcun modo con le nostre teorie moderne, ma anzi esse costituiscono la base teoretica per la psicologia dell’inconscio in generale. Ciononostante per molto tempo dopo di lui persistette la resistenza all’ipotesi dell’inconscio. Per esempio è caratteristico che Max Dessoir, nella sua storia della psicologia tedesca moderna, non citi nemmeno G. C. Carus e Eduard von Hartmann.
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