Dopo aver sperato che il nostro nome sia scolpito attorno al sole, cadiamo nell’altro estremo, e auspichiamo che sia cancellato ovunque e scompaia per sempre. La nostra smania di affermarci non aveva limiti? Non ne avrà neanche quella di cancellarci. Spingendo fino all’eroismo la volontà di rinuncia, noi impieghiamo le nostre energie ad accrescere la nostra oscurità, a cancellare finanche la minima traccia del nostro passaggio, il minimo ricordo del nostro respiro. Odiamo chiunque si attacchi a noi, conti su di noi o attenda qualcosa da noi. La sola concessione che possiamo ancora fare agli altri è di deluderli. Ad ogni modo, essi non potranno capire il nostro desiderio di sfuggire al sovraffaticamento dell’io, di arrestarci sulla soglia della coscienza e di non penetrarvi mai, di acquattarci nel più profondo del silenzio primordiale, nella beatitudine inarticolata, nel dolce stupore in cui giaceva la creazione prima del frastuono del verbo. Questo bisogno di nasconderci, di farla finita con la luce, di essere gli ultimi in tutto, questi accessi di modestia in cui, rivaleggiando con le talpe, le accusiamo di ostentazione, questa nostalgia del non nato e del non nominato – sono tutte modalità per liquidare l’esperienza dell’evoluzione e ritrovare, con un balzo all’indietro, l’istante che precedette l’inizio del divenire.
L’inizio del divenire
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