Il mio grande amico, quand’ero piccola, fu il mio cane Murò. Murò era un «setter laverac focato», come diceva papà con compiacimento. Era figlio di Maura, la cagna del veterinario.
Murò era dolce e discreto, paziente nei giochi come papà stesso. La sua fronte pensierosa esprimeva lo sforzo costante di comprendere, di prevenire.
In molte fotografie Murò appare come il mio custode. In una è accanto a me, nell’orto, seduto sulle zampe di dietro, il collo eretto; è fiero, consapevole della sua dignità. C’è una somiglianza tra il cane e la bambina. Entrambi hanno sulla fronte – rigida e scura quella di lui, bianca e convessa quella della bambina – un leggero corrugamento, un’ombra di malinconia. Ma l’occhio di Murò è fisso, intrepido ed ingenuo come quello di una recluta, mentre gli occhi della bambina sembrano rivolti a considerar qualcosa di lontano e preoccupante.
Anche Murò era stato, come tutti, giovane e gaglioffo. Una volta mangiò tutti i «tomini» che uno di Boves aveva portato. I cacciatori prima cosa dicevano di lui: – Questo è il cane a cui piacciono i tomini di Boves!
Si prendevano questa confidenza, ma sapevano bene come Murò fosse prezioso alla caccia, e avevano per lui grande considerazione: ne parlavano con quella gravità affettuosa che osservavo nei cacciatori quando lodavano i loro cani.
Sovente la mamma ed io seguivamo papà e Murò a caccia, specie agli uccelli, lungo il Cant.
Per quel genere inferiore di caccia il cane era d’impaccio e io dovevo trattenere Murò. In quei momenti Murò non era certo dolce, ma diventava anche piú bello. Dava strattoni, tendeva la testa selvaggiamente, attirato da un richiamo che pareva farlo uscire di sé. Io lo stringevo attorno al collo con le mie braccia di bambina, mi appendevo al suo collare. Quante volte Murò mi trascinò tra gli sterpi ed i sassi, di peso: gemendo lui di desiderio, io di impotenza. Dopo, mentre lui ansava trafelato, lo abbracciavo con tenerezza e gli toglievo a una a una le lappole e le pagliuzze.
Diventò vecchio e negli ultimi tempi era sordo e quasi cieco. Urtava nelle gambe dei tavoli, camminava a testa bassa, chiuso in sé e avvilito. Papà disse che l’avrebbe mandato per un certo tempo presso un allevatore dove l’avrebbero curato.
Fui distratta da altre cose? Ho potuto sorvolare su quella perdita? Siccome non ricordo il momento in cui dovetti capire che non avrei piú rivisto Murò; peggio, che qualcuno doveva averlo finito. (È possibile che l’abbia dimenticato proprio perché ne soffersi molto; che abbia voluto fuggire quel pensiero).
Il cane che ha visto Dio di Dino Buzzati
È una raccolta di racconti di Dino Buzzati, in cui l’autore esplora temi come la solitudine, la fede e il rapporto con gli animali. Uno dei racconti, che dà il titolo alla raccolta, tratta della profonda connessione tra un uomo e un cane randagio che sembra possedere un’aura mistica. Buzzati usa il cane come simbolo per esplorare la condizione umana, in un mix di realismo e fantasia, che porta il lettore a riflettere sulla natura delle relazioni e del destino.
Marley e io di John Grogan
È un libro autobiografico in cui John Grogan racconta la vita della sua famiglia attraverso le avventure di Marley, un labrador combinaguai. Il libro è un tributo affettuoso e spesso esilarante alla gioia e al caos che un cane può portare nella vita di una famiglia. Come nel ricordo di Murò, Grogan esplora la crescita, la vecchiaia e infine la perdita di un amato animale domestico, catturando la profondità del legame tra esseri umani e cani.
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