Lotta con la disperazione: il processo di scrittura
La solitudine della scrittura è una solitudine senza la quale lo scritto non si realizza o si sbriciola esangue nel cercare cosa scrivere ancora.
Ci vuole sempre una separazione dagli altri intorno a chi scrive libri. È una solitudine, la solitudine dell’autore, quella dello scritto. Tanto per cominciare, ti chiedi che cos’era quel silenzio intorno a te e praticamente a ogni passo che fai in una casa, a ogni ora del giorno, sotto tutte le luci, quella di fuori o quella delle lampade accese anche durante il giorno. La solitudine reale del corpo diventa quella, inviolabile, dello scritto.
Trovarsi in un buco, in fondo al buco, in una solitudine quasi totale e scoprire che soltanto la scrittura ci salverà. Essere senza alcun argomento di libro, senza alcuna idea di libro significa trovarsi, ritrovarsi, davanti a un libro. Un’immensità vuota, un libro eventuale. Davanti a niente. Davanti a una scrittura viva e spoglia, in un certo senso terribile, terribile da sormontare. Credo che la persona che scrive non abbia nessuna idea di libro, ha le mani vuote, la testa vuota e conosce dell’avventura del libro soltanto la scrittura asciutta e nuda, senza futuro, senza eco, remota, con le sue regole auree elementari: ortografia, senso.
Nella vita viene un momento, credo sia fatale, cui non si può sfuggire, in cui si mette tutto in dubbio: il matrimonio, gli amici, soprattutto gli amici della coppia. Non il figlio. Il figlio non è mai messo in dubbio. E il dubbio ci cresce intorno. Questo dubbio è solo, è il dubbio della solitudine, nato dalla solitudine. Si può già dire la parola. Credo che molti non potrebbero sopportare quello che dico, scapperebbero. Forse per questo ogni uomo non è uno scrittore. Ecco la differenza, ecco la verità, nient’altro. Il dubbio, è scrivere. Dunque è anche lo scrittore. E con lo scrittore tutti scrivono, lo si è sempre saputo.
Finché c’è il libro che esige di essere terminato, si scrive. Si è costretti a mettersi dalla sua parte. È impossibile buttare un libro per sempre prima che sia completamente scritto, vale a dire: solo e libero da te, che lo hai scritto. È intollerabile quanto un delitto. Non credo a quelli che dicono: “Ho strappato il manoscritto, l’ho gettato”. Non ci credo. O per gli altri non esisteva, ciò che era scritto, o non era un libro. Quando non è un libro, si sa, sempre. Quando non sarà mai un libro, no, non si sa. Mai.
Tutto scriveva nella casa quando scrivevo. La scrittura era ovunque.
Scrivere comunque, nonostante la disperazione. No: con la disperazione. Quale disperazione, non so darle un nome. Scrivere senza imboccare subito la via che porta allo scritto è pur sempre lavorarlo. E tuttavia si deve accettare questo: lavorare lo “scarto” significa tornare indietro verso un altro libro, verso un altro possibile di quello stesso libro.
Quando un libro è terminato, un libro che hai scritto, intendo, non puoi più dire, leggendolo, che è un libro che hai scritto, né quali cose vi siano state scritte, né con quale disperazione o quale felicità, quella di una trovata oppure di un fallimento di tutta te stessa. Perché, alla fine, nel libro non si può vedere niente di simile. La scrittura è in certo qual modo uniforme, placata. Non succede più niente in un libro terminato e distribuito. Esso raggiunge l’innocenza indecifrabile della sua venuta al mondo.
Esser soli con il libro non ancora scritto, significa trovarsi ancora nel primo sonno dell’umanità. Significa anche esser soli con la scrittura ancora incolta. Significa tentare di non morirne.
Non so che cos’è un libro. Nessuno lo sa, ma si sa quando ce n’è uno. E quando non c’è, si sa, come si sa che si è, non ancora morti.

Crediti
 Marguerite Duras
 Scrivere
  Traduzione di Leonella Prato Caruso
 SchieleArt •   • 




Quotes per Marguerite Duras

È troppo tardi anche per i ricordi. Adesso non li amo più. Non so più se li ho mai amati. Me ne sono andata. Non ho più nella testa il profumo della sua pelle, negli occhi il colore dei suoi occhi. Non mi ricordo più la sua voce, se non a volte quel tono dolce, di sera, quand'era stanca. La sua risata non la sento più: né la risata, né le grida. È finita, non me ne ricordo più.  L'amante

Quando l'autista le chiede chi sia, lei dice che non sa rispondere a quella domanda. Lei dice: «Se mi viene chiesto chi sono, io mi confondo, non so come rispondere». Dunque lei è posata nel mondo come qualcosa che si rifiuta di essere classificata. In un altro momento lei dice di sapere di non esistere, e di averne una prova certa, lei dice: «Come dire, interna interiore», e aggiunge: «È da quando sono stata laggiù», e non sappiamo se si tratti di un campo di concentramento o degli Yvelines. Anche io ho questo sentimento, di non esistere.

Che, dal momento che fra loro non avviene niente, resta il ricordo, ossessivo, di ciò che non avviene.

Si crede che, quando una cosa finisce, un'altra ricomincia immediatamente. No. Tra le due cose, c'è lo scompiglio.

Che il cinema vada in rovina, è il solo cinema possibile. Che il mondo vada in rovina, in rovina, è la sola politica possibile.