L'ultima casa
Sono seduto accanto al letto di mia nonna. Il mio fratello maggiore ha insistito perché venissi nel fine settimana. Sapevo che cosa significava. Per la stessa ragione per cui mio fratello non mi ha detto: «Sta morendo», è stato difficile per me dire quello che volevo dire a mia nonna. Anche toccarla è difficile. Riesco a dirle «Ti voglio bene», ma non «Mi mancherai». Riesco a darle un bacio per salutarla quando arrivo e quando riparto, ma non a prenderle la mano mentre sono con lei.
Guardando mia nonna da questa distanza, provo qualcosa di simile all’effetto della veduta d’insieme: casa è di colpo vulnerabile, bella, unica. E a un tratto vedo tutto di lei con un solo sguardo, nel contesto della mia vita, della mia famiglia, della storia. Incastonata in un vuoto nero in apparenza infinito, mia nonna ha bisogno e merita di essere protetta.
Mi sento male al pensiero di tutte le volte che l’ho data per scontata o peggio. Facevo le smorfie a mio fratello mentre ero obbligato a stare al telefono con lei. Supplicavo di non essere costretto a dormire a casa sua e, quando ero lì, guardavo programmi in replica per ore e a malapena le rivolgevo la parola. Mi sottraevo ai suoi baci.
Adesso che ho dei figli miei, so che facevo quello che fanno tutti i bambini. Non è una responsabilità da bambini prendersi cura di una persona anziana (o di una casa, o di un pianeta); tocca agli adulti. Ed è esattamente quello che i miei genitori hanno fatto, portandola qui, facendo di casa loro casa sua. Hanno fatto installare un montascale perché potesse muoversi da un piano all’altro, assunto una badante prima part-time e poi a tempo pieno e non hanno mai detto una parola sulle limitazioni imposte alla loro vita privata né sul loro carico crescente di responsabilità emotive, logistiche e finanziarie. Vederli prendersi cura di lei – una scelta che ha richiesto molte forme di sacrificio – è stata una rivelazione per me. Non credo sia un caso se questo libro ha cominciato a germinare quando si è trasferita da loro.
Il mio figlio maggiore sta per fare il Bar mitzvah, il rito ebraico di passaggio all’età adulta. Tra le altre cose, il Bar mitzvah segna la transizione tra la fase in cui si è beneficiario di quello che il mondo ha da offrire e quella in cui si partecipa alla conservazione e alla creazione di quello che il mondo offre agli altri. È un momento al tempo stesso magnifico e devastante. Lui è in grado di prepararsi da mangiare da solo. Di leggere da solo prima di dormire. È complicato e spesso doloroso prendersi cura di qualcosa che sei sul punto di lasciare andare. Mio figlio ha bisogno di me tanto quanto mia nonna ha bisogno dei miei genitori. Ma è anche mio compito, come è compito dei miei genitori, non restare aggrappato.
Che noi affrontiamo o meno i cambiamenti climatici, dovremo imparare a lasciare andare. Anche se domani stesso riducessimo a zero le emissioni di anidride carbonica, continueremmo ad assistere agli effetti provocati dalle nostre azioni passate. Per i nostri figli e nipoti la Terra non sarà una casa nel modo in cui lo è stata per noi: non sarà altrettanto ospitale, bella e piacevole. Come sostiene Roy Scranton nell’articolo «Imparare a morire nell’Antropocene», pubblicato sul New York Times, è importante farsi una ragione della perdita: Il problema principale posto dal cambiamento climatico non è come il Dipartimento della difesa debba programmare le guerre per le risorse, né come costruire dighe foranee per proteggere Alphabet City, né quando dovremmo evacuare Hoboken. Non è un problema che potremo affrontare comprando una Prius, firmando un trattato o spegnendo l’aria condizionata. Il problema principale è di natura filosofica: capire che questa civiltà è già morta. Prima ci confronteremo con questo problema e ci accorgeremo che non possiamo fare niente per salvarci, prima potremo affrontare il duro lavoro necessario per adattarci, con estrema umiltà, alla nostra nuova realtà.
Guardando mia nonna, capisco davvero che cosa intende. In un certo senso lei è già morta – per quanto sia difficile scriverlo – e accettare la sua assenza non è solo l’approccio più onesto, ma l’unico che ci permetterà di dare pieno valore alla sua presenza.
È tradizione, a Yom Kippur, il Giorno dell’espiazione, recitare la preghiera Mi Shebeirach per le persone care ammalate: Possa Colui che benedice essere pieno di compassione per lei, ristabilirla, guarirla, ridarle forza, vivificarla.
Che le mandi, rapidamente, una completa guarigione – guarigione dell’anima e guarigione del corpo – insieme a tutti i malati, del popolo d’Israele e dell’umanità, presto, rapidamente, senza indugio, e diciamo: Amen! Dopo qualche giorno di riflessione, mia madre ha deciso di non dire la preghiera per mia nonna quest’anno. Mia nonna non guarirà, e non dovrebbe guarire. Ha novantanove anni. Non sta soffrendo, né fisicamente né emotivamente. Sarebbe crudele allungare la durata della sua vita a spese della sua esperienza di vita.
È vero, non possiamo fare niente per «salvare» mia nonna. È anche vero che possiamo salvare le cose che sono importanti, per lei e per noi. Può trascorrere il tempo che le rimane in un ambiente tranquillo. I miei genitori le hanno comprato un materasso speciale che previene le piaghe da decubito. L’hanno spostata vicino alla finestra perché possa vedere l’albero e sentire i raggi del sole.
Hanno assunto un’infermiera fissa per l’assistenza medica e anche perché non sia mai sola.
Trascorrono ore tutti i giorni a parlare con lei e incoraggiano i suoi nipoti a venire il più spesso possibile e i suoi pronipoti a parlarle con FaceTime. Le danno le cose che la rendono felice: cioccolata, fotografie della sua famiglia, registrazioni delle canzoni yiddish che ascoltava da bambina, compagnia.
Non possiamo salvare le barriere coralline. Non possiamo salvare l’Amazzonia. È improbabile che riusciremo a salvare le città costiere. L’entità delle perdite irreparabili è tale da darci quasi la sensazione che qualunque ulteriore sforzo sia inutile. Ma solo quasi. Milioni di persone – forse decine o centinaia di milioni – moriranno a causa dei cambiamenti climatici, e il loro numero conta.
Centinaia di milioni di persone, forse miliardi, diventeranno rifugiati climatici. Il numero dei rifugiati conta. Conta quanti giorni all’anno i bambini avranno la possibilità di giocare all’aperto, quanto cibo e quanta acqua ci sarà, di quanti anni sarà l’aspettativa media di vita. Questi numeri contano, perché non sono solo numeri – ciascuno corrisponde a un individuo, con una famiglia, con manie e fobie, allergie e cibi preferiti, sogni ricorrenti e una canzone fissa nella testa, impronte digitali uniche e una particolare risata. Un individuo che inspira le molecole che noi abbiamo espirato. È difficile avere a cuore la vita di milioni di persone, è impossibile non avere a cuore una vita. Ma forse non c’è bisogno di avere a cuore nessuna di quelle persone. Dobbiamo solo salvarle.
Io non credo che la sfida maggiore posta dai cambiamenti climatici sia di natura filosofica. E sono pressoché certo che nell’Africa subsahariana o in Asia meridionale o in America Latina – dove il cambiamento climatico è già dolorosamente tangibile – sarebbero d’accordo con me. La sfida maggiore è salvare tutto quello che possiamo: quanti più alberi, quanti più iceberg, quante più specie, quante più vite – presto, rapidamente, senza indugio.
Volere che tutti gli abitanti della Terra non solo abbiano una vita sana ma si sentano a casa dovrebbe essere scontato. Eppure non è così. Non soltanto c’è bisogno di dirlo, ma di ripeterlo.
Dobbiamo costringerci a stare davanti allo specchio e dobbiamo costringerci a guardare. Dobbiamo impegnarci in dispute perpetue con noi stessi per imporci di fare quello che va fatto. «Ascoltami» implora l’anima del primo messaggio di suicidio, quando comincia a perorare la causa della vita.
«Vedi, è bene che l’uomo ascolti.»

Crediti
 Jonathan Safran Foer
 Possiamo salvare il mondo prima di cena
  traduzione di Irene Abigail Piccinini
 Pinterest • Gustave Doré La sepoltura di Gesù • The Dore Gallery of Bible Illustrations



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