Uscii dall’ultimo spettacolo nelle strade vuote. Lo scheletro
mi passò accanto, tremando, appeso all’asta
di un camion della spazzatura. Grandi berretti gialli
celavano il volto dei netturbini, ma anche così credetti di riconoscerlo:
un vecchio amico. Eccoci qui!, ripetei a me stesso
duecento volte,
fino a quando il camion non scomparve a una svolta.
Non sapevo dove andare. Per molto tempo
vagai nei dintorni del cinema
alla ricerca di una caffetteria, un bar aperto.
Tutto era chiuso, porte e persiane, ma
la cosa più curiosa era che gli edifici sembravano vuoti, come
se la gente ormai non vivesse più lì. Non avevo niente da fare
tranne girare e ricordare
ma anche la memoria cominciò a venir meno.
Mi immaginai come «L’ultimo Selvaggio» in sella a
una motocicletta bianca, che viaggiava per le strade
di Baia California. Alla mia sinistra il mare, alla mia destra il mare
e al centro la scatola piena di immagini che a poco a poco
svanivano. Alla fine la scatola sarebbe rimasta vuota?
Alla fine la moto se ne sarebbe andata insieme alle nuvole?
Alla fine Baia California e «L’ultimo Selvaggio» si sarebbero fusi
con l’Universo, con il Nulla?
Credetti di riconoscerlo: sotto il berretto giallo da netturbino, un amico
di gioventù. Mai quieto. Mai troppo a lungo nella stessa
condizione. Dei suoi occhi scuri dicevano i poeti: sono come due aquiloni
sospesi sopra la città. Senza dubbio il più coraggioso. E i suoi occhi
simili a due aquiloni neri nella notte nera. Appeso
all’asta del camion lo scheletro danzava con la lettera della nostra
gioventù. Lo scheletro danzava con gli aquiloni e le ombre.
Le strade erano vuote. Avevo freddo e nel mio cervello si susseguivano
le scene di «L’ultimo Selvaggio». Un film d’azione, con il trucco:
le cose succedevano solo apparentemente. Sullo sfondo: una vallata silenziosa,
pietrificata, al riparo dal vento e dalla storia. Le moto, il fuoco
delle mitragliatrici, i sabotaggi, i 300 terroristi uccisi, in realtà
erano fatti di una sostanza più vanescente dei sogni. Bagliore
appena intravisto. Occhio visto e non visto. Fino a quando lo schermo
non divenne bianco, e uscii in strada.
I paraggi del cinema, gli edifici, gli alberi, le cassette delle lettere,
i tombini delle fogne, tutto sembrava più grande di prima
che vedessi il film. I soffitti a cassettoni erano come strade sospese nell’aria.
Ero uscito dalla fissità della pellicola per ritrovarmi
in una città di giganti. Per un momento credetti che i volumi e le prospettive
fossero impazziti. Una pazzia naturale. Senza spigoli. Perfino i miei vestiti
avevano subito una mutazione! Tremando, misi le mani
nelle tasche della mia giacchetta nera e cominciai a camminare.
Seguii la scia dei camion della spazzatura senza nessuna certezza
di quello che speravo di trovare. Tutti i viali
confluivano in uno Stadio Olimpico di grandezze colossali.
Uno Stadio Olimpico disegnato nel vuoto dell’universo.
Ricordai notti senza stelle, gli occhi di una messicana, un adolescente
a torso nudo ed un coltello. Mi trovo in un posto dove si vede solo
con la punta delle dita, pensai. Qui non c’è nessuno.
Ero andato a vedere «L’ultimo Selvaggio» e uscendo dal cinema
non sapevo dove andare. In qualche modo ero io
il personaggio del film e la mia motocicletta nera mi conduceva
direttamente verso l’annientamento. Non più lune che splendevano
sulle vetrine, non più camion della spazzatura, non più
amici scomparsi. Avevo visto la morte copulare col sogno
e adesso ero come rinsecchito.
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