Scrivere per non morire, affidarsi alla sopravvivenza delle opere, è quanto lega l’artista al proprio compito. Il genio affronta la morte, l’opera è la morte resa vana o trasfigurata o, secondo le sfuggenti parole di Proust, resa meno amara, meno ingloriosa e forse meno probabile. Può essere. Non opporremo a questi sogni, tradizionalmente attribuiti ai creatori, la riflessione su quanto siano essi recenti, quanto siano legati, appartenendo al nostro Occidente, allo sviluppo di una concezione umanistica dell’arte, in cui l’uomo cerca di glorificare sé stesso nelle proprie opere ed agire in esse, perpetuando la propria azione. Ciò è certamente importante e significativo. Ma l’arte, a questo punto, è solo una maniera memorabile di unirsi alla storia. I grandi personaggi storici, gli eroi, i grandi guerrieri, non meno degli artisti, si mettono così al riparo dalla morte; entrano nella memoria dei popoli; sono esempi, presenze attive. Ma questa forma di individualismo ben presto cessa d’essere soddisfacente. Ci si accorge che, se quello che importa, è soprattutto il lavoro della storia, l’azione nel mondo, lo sforzo comune per la verità, è vano voler restare sé stessi al di là della scomparsa, desiderare di rimanere immobili e duraturi in un’opera che sovrasti il tempo: questo è vano ed inoltre contrario a ciò che si vuole. Ciò che occorre non è abitare l’eternità pigra degli idoli, ma mutare, scomparire per cooperare alla trasformazione universale: agire senza nome e non essere un puro nome ozioso. Allora i sogni di sopravvivenza delle creature appaiono non soltanto meschini ma sbagliati e qualsiasi vera azione, compiuta anonimamente nel mondo, per un avvento del mondo, sembra affermare sulla morte un trionfo più giusto, più sicuro, almeno libero dal miserabile rimpianto di non essere più se stessi.

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