Io mi ricordo un giovane – un uomo ancora giovane – a cui la morte stessa impedì di morire – e forse l’errore dell’ingiustizia.
Gli Alleati erano riusciti ad avanzare sul territorio francese. I tedeschi, già vinti, lottavano invano con inutile ferocia.
In una grande casa (il Castello, la chiamavano) bussarono alla porta piuttosto timidamente. So che il giovane andò ad aprire a degli ospiti che senza dubbio chiedevano aiuto.
Un urlo, questa volta: Tutti fuori. Un tenente nazista, in un francese vergognosamente normale, fece uscire prima le persone più anziane, poi due giovani donne.
Fuori, fuori. Urlava, questa volta. Il giovane non cercava di fuggire, ma avanzava lentamente, in un modo quasi sacerdotale. Il tenente lo scosse, gli mostrò dei bossoli, delle pallottole, chiaramente si era combattuto, il terreno era un terreno di guerra. Il tenente si strangolò in un linguaggio strano e mettendo sotto il naso di quell’uomo già meno giovane (si invecchia in fretta) i bossoli, le pallottole, una granata, gridò distintamente: Guardi a che punto è arrivato.
Il nazista fece schierare i suoi uomini per colpire, secondo le regole, il bersaglio umano. Il giovane disse: Fate almeno rientrare la mia famiglia. Ossia: La zia 94 anni, la madre più giovane, sua sorella e sua nipote, un lungo e lento corteo, silenzioso, come se tutto fosse già compiuto.
Lo so – lo so – che colui a cui miravano i tedeschi, in attesa soltanto dell’ordine definitivo, provò allora un sentimento di leggerezza straordinaria, una specie di beatitudine (niente di felice, tuttavia), – gioia sovrana? L’incontro della morte e della morte?
Al suo posto non cercherò di analizzare questo sentimento di leggerezza. Forse d’improvviso era invincibile. Morto – immortale. Forse l’estasi. O la compassione per l’umanità sofferente, la felicità di non essere né immortale né eterno. Da allora, fu legato alla morte da una furtiva amicizia.
In quell’istante, ritorno brusco nel mondo, proruppe l’intenso rumore di una battaglia vicina. I compagni della Resistenza volevano andare in soccorso di chi sapevano in pericolo. Il tenente si allontanò per accertarsi. I tedeschi restavano in riga, pronti a dimorare così, in una immobilità che fermava il tempo. Ma ecco uno di loro avvicinarsi e dire con voce ferma: Noi, non tedeschi, russi e, con una specie di risata: Armata Vlassov e gli fece cenno di sparire. Credo che si allontanò, sempre con quella sensazione di leggerezza, tanto da ritrovarsi in un bosco lontano, chiamato “Bosco delle Brughiere” dove dimorò al riparo di piante che gli erano familiari. Fu nel folto del bosco che d’improvviso, e dopo quanto tempo, ritrovò il senso della realtà. Poco dopo apprese che tre giovani, figli di contadini, estranei alle battaglie, e che avevano come unico torto la loro giovinezza, erano stati fucilati.
Anche i cavalli gonfi, sulla strada, nei campi, attestavano una guerra che era durata. In realtà, quanto tempo era trascorso? Quando il tenente era tornato e si era reso conto della scomparsa del giovane castellano, perché la collera, la rabbia, non l’avevano spinto a bruciare il castello (immobile e maestoso)? Perché era il Castello. Sulla facciata era iscritta, come un ricordo indistruttibile, la data del 1807. Era colto abbastanza da sapere che la data del 1807 era il famoso anno di Jena, quando Napoleone, sul suo piccolo cavallo grigio, passò sotto le finestre di Hegel che in lui riconobbe l’anima del mondo, come scrisse ad un amico? Menzogna e verità, poiché come Hegel scrisse ad un altro amico, i francesi saccheggiarono e depredarono la sua dimora. Ma Hegel sapeva distinguere l’empirico e l’essenziale. In quel 1944, il tenente nazista ebbe per il Castello il rispetto e la considerazione che le fattorie non suscitavano. Però frugarono dappertutto. Presero del denaro; in un locale separato, la stanza alta, il tenente trovò delle carte e una specie di grosso manoscritto, che conteneva forse piani di guerra. Infine partì. Tutto bruciava, tranne il Castello. I Signori erano stati risparmiati.
Fu allora probabilmente che cominciò per il giovane il tormento dell’ingiustizia. Non più estasi. La sensazione che fosse vivo soltanto perchè, anche agli occhi dei russi, apparteneva a una classe nobile.
Era questo, la guerra: la vita per gli uni, la crudeltà dell’assassinio per gli altri.
Dimorava tuttavia, nel momento in cui la fucilata non era ormai soltanto che attesa, un sentimento di leggerezza che non saprei spiegare: libertà dalla vita? L’infinito che si apre? Né felicità né disgrazia. Neppure assenza di timore e forse già un passo al di là. So, immagino che questa sensazione inanalizzabile cambiò quel che rimaneva della sua esistenza. Come se la morte fuori di lui non potesse ormai che urtarsi con la morte dentro di lui. “Io sono vivo. No, tu sei morto.”
Più tardi, ritornato a Parigi, incontrò Malraux. Lui gli raccontò che era stato fatto prigioniero (senza essere riconosciuto), che era riuscito a scappare, ma perdendo un manoscritto. “Erano solo delle riflessioni sull’arte, facili da ricostruire, mentre non lo sarebbe se fosse un vero manoscritto.” Con Paulhan fece fare delle ricerche che risultarono vane. Che importa. Dimora solo la sensazione di leggerezza, che è la morte stessa o, per dirlo più precisamente, l’istante della mia morte ormai sempre in corso.
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