Il mio monolinguismo è permanente, e lo chiamo la mia dimora, e lo avverto come tale, ci sto e lo abito. Esso mi abita… Al di fuori da questo non sarei me stesso. Esso mi costituisce, mi detta ogni cosa fino all’ipseità, mi prescrive, anche, una solitudine monacale, come se dei voti mi avessero vincolato ancor prima che imparassi a parlare.
E mai questa lingua, la sola che io sia così votato a parlare, finché parlare mi sarà possibile, alla vita alla morte, questa sola lingua, vedi, non sarà mai la mia. Non lo fu mai in verità.
Cogli immediatamente l’origine delle mie sofferenze, poiché questa lingua le attraversa da una parte all’altra, è il luogo delle mie passioni, dei miei desideri, delle mie preghiere, la vocazione delle mie speranze. Ma ho torto, ho torto a parlare di attraversamento e di luogo. Poiché è unicamente sul bordo della propria lingua, né in esso né al di fuori di esso, sulla linea introvabile della sua costa, che, da sempre, permanentemente, mi chiedo se si possa amare, godere, pregare, morire di dolore o semplicemente morire in un’altra lingua o senza dire nulla a nessuno, senza nemmeno parlare…
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