Ulisse, lacero, è riconosciuto dal suo vecchio cane Argos.
2800 anni fa, nell’Odissea, XVII, 301, Homer scrisse: Enoèsen Odyssea eggus eonta. Parola per parola: pensò a Ulisse in colui che stava avanzando verso di lui.
La scena è incredibile perché nessun uomo e nessuna donna sull’isola di Itaca aveva riconosciuto Ulisse vestito da mendicante: è Argos, il suo vecchio cane, che improvvisamente riconosce quell’uomo. Il primo essere colto nell’atto di pensare, nella storia europea, è un cane.
Ora, nello stesso momento, improvvisamente, lo stesso Ulisse percepisce di essere stato riconosciuto in quello spazio (che qualcuno pensa di lui nel posto). Ulises si guarda intorno e alla fine si accorge, non lontano dal portale, che giace nel cumulo di immondizia e paglia, il suo vecchio cane da caccia, Argos, con cui ha inseguito cinghiali, cervi, lepri, capre di montagna venti anni fa, quando ero re dell’isola.
Prima di tutto, Ulisse non vuole essere riconosciuto. Si asciuga rapidamente una lacrima che scivola lungo la sua guancia, precedentemente sporca di un pezzo di carbone per non essere identificata.
Argos alza gli occhi, scuote il naso, pensa Ulisse nel mendicante, muove la coda, piega le due orecchie, muore.
Potevano solo contemplare, una volta soddisfatta la fame, lo spreco del cibo: palchi, ossa, denti, zanne, artigli, pelli, conchiglie, piume, escrementi, letame.
Parmenide ha scritto che i segni (in greco, i sèmata) sono prima di tutto gli escrementi delle bestie perseguitate, quindi le tracce che segnano il loro percorso, infine le stelle (in latino, i sidera) che danno un resoconto del loro itinerario.
I segni del passaggio delle bestie diventano segni di riconoscimento che guidano i cacciatori verso la loro preda, fino a quando ritornano e diventano indicazioni che permettono di tornare dal luogo della mischia alla casa, fino al suo fuoco, fino a quando la cottura delle dighe morte e smembrate, alla possibilità della storia non solo di cacciare ma anche di sopravvivenza, accanto alla loro, seduti in cerchio attorno alle fiamme che cucinano la preda morta.
Gli antichi greci della Turchia (come gli antichi cinesi del taoismo) pensavano al pensiero come a un viaggio circolare: noein e neomai . Pensano di pensare come un viaggio che non dimentica la strada percorsa. Un viaggio che avanza ritornando, tale è la strada, il vicolo, il percorso che costituisce il fondo del pensiero. Chuang-tzu scrive: questo è il Tao. Allo stesso tempo, Eraclito scrive, più saggiamente: è un enantiodromía (un sentiero che ne ripercorre i passi). Per questo motivo i primi pensatori della Grecia, molto prima che la filosofia fosse costituita in quanto tale, volevano fondare la parola noos (pensiero) nella parola nostos (ritorno). Pensare era errare in qualsiasi direzione ricordando come tornare vivo accanto al proprio dopo il test mortale. C’è un desiderio (in latino, un regressus) anche nell’audacia di pensare. C’è un percorso che non dimentica quello che pensi. Questo è ciò che significa il termine parola greca (meta-hodos): il percorso inverso (il percorso ricapitolativo) dove precisamente il trasporto (la meta-phora) viene fatto capovolto. C’è qualcosa di perso che è amato incessantemente nel movimento nostalgico del pensiero. Gli esseri umani possono pensare senza ritorno? No. Capiamo perché Rabdod Warlord of Friesland (VII-VIII secolo d.C.). La leggenda dice che Radbod stava per essere battezzato, ma quando gli fu detto che dopo la sua morte non avrebbe trovato nessuno dei suoi antenati in cielo, si dimise dal sacramento ed entrò nella Chiesa con queste parole: Preferisco un’eternità nell’inferno con i miei antenati che in Paradiso con i miei nemici. (N. del T.) pensa prima di prendere la decisione di metamorfosare il suo corpo, prima di affondarlo in una nuova acqua originale: Dove è finito il mio morto?. Un desiderio lo prende e fugge dall’acqua eterna per incontrarsi di nuovo, dopo tre giorni, dove si radunano i più numerosi: nell’oscurità dell’altro mondo dove si accovacciano, sottoterra, tutti i morti che si decompongono lì.
Ecco come il versetto 326 di Canzone XVII dell’Odissea di Omero descrive lo strano thanatos (voluttà, deflazione, depressione, morte) del cane da caccia nell’istante immediatamente dopo il suo nois (il suo odore, il suo pensiero). Le ombre della morte coprivano gli occhi di Argo dopo aver percepito Ulisse, che aveva aspettato per vent’anni.
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